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Chernobyl Oggi 30 Anni Dopo il Disastro

GUIDE / CHERNOBYL

Chernobyl Oggi: Viaggio nella Zona di Esclusione

La Zona di Esclusione di Chernobyl è ancora oggi una delle aree più contaminate e inaccessibili del globo. Dalla ghost town di Pripyat agli angoli più misteriosi della centrale: un reportage dall’epicentro del disastro nucleare di Chernobyl.

Era una mattina piuttosto fredda a Kiev e la stazione centrale appariva ancora piuttosto assopita. Avevo appena lasciato il mio ostello, un buio scantinato di un palazzo sovietico trasformato in un moderno e sufficientemente comodo rifugio per viandanti, e mi ero diretto verso il deposito bagagli della stazione centrale per poter lasciare lì il mio zaino e tutto il superfluo. Stavo per partire per un viaggio decisamente particolare, stavo per andare a Chernobyl.

Ero arrivato a Kiev il giorno prima, la mattina presto, con un treno da Odessa. Avevo praticamente attraversato tutta l’Ucraina da nord a sud su un vecchio convoglio sferragliante. Erano diversi anni che mi documentavo su Chernobyl ed era altrettanto tempo che desideravo andare a vedere con i miei occhi, entrare dove pochi finora hanno osato, permeare nella Zona di Esclusione.

Il mio desiderio aveva preso forma in un pomeriggio d’autunno. Da qualche parte avevo letto di un reportage sulla città di Chernobyl, qualcuno era riuscito a realizzare delle fotografie che mostravano lo stato della zona intorno alla Centrale Nucleare del famoso disastro avvenuto nel 1986, una vera rarità per l’epoca.

Infatti la zona attorno alla Centrale di Chernobyl veniva descritta come un luogo completamente inaccessibile, altamente contaminato, sorvegliato da guardie speciali dell’esercito. Il reportage inoltre sottolineava che nessuno, neanche i vecchi abitanti di Chernobyl, aveva il permesso di entrare nella zona. Tutto era rimasto come un tempo, tutto era lì, case, scuole, macchine. E a chiunque era proibito tornarvi.

E in effetti è così.

GUERRA IN UCRAINA – AGGIORNAMENTI SULLA SITUAZIONE ATTUALE NELLA ZONA DI ESCLUSIONE

DESTINAZIONE: CHERNOBYL

Incontrai Serhii nel parcheggio di un KFC, di fronte la nuova stazione centrale di Kiev. Era un uomo robusto, di mezza età, con un viso tondo e arrossato dal sole. Sembrava un tipo piuttosto simpatico, parlava un inglese decisamente elementare ma riusciva a farsi capire meravigliosamente bene. Serhii sarebbe stato il mio accompagnatore nella Zona, un professionista autorizzato dal Governo, esperto conoscitore del territorio, dei rischi e dei percorsi più affidabili. Eravamo pronti per partire: io, lui, suo nipote Tim e l’autista, un uomo smilzo di mezza età, che chiamerò “Silente” per il suo carattere taciturno.

La statale verso nord correva dritta attraverso distese di campi verdi. Ogni tanto una casetta qua e la, qualche fabbrica, qualche bosco. Tra Kiev e Chernobyl ci sono circa 180 Km di strada e più ci si allontana dalla città più il paesaggio diventa desolato, il traffico è sempre meno intenso e le foreste di betulle la fanno da padrone. Ci fermammo in una stazione di servizio a fare rifornimento, non c’era anima viva oltre noi. Serhii ne approfittò per farmi qualche domanda sulla mia provenienza, sul mio lavoro, sul motivo per il quale avevo deciso di rischiare di rimanere contaminato per vedere com’era ridotta Chernobyl oggi.

Dopo ancora una mezz’ora abbondante arrivammo nei pressi della Zona. Da molti chilometri oramai la strada era completamente deserta, le pensiline delle fermate degli autobus in perfetto stile sovietico giacevano desolate ai lati della statale, la linea di mezzeria era ormai quasi completamente cancellata. Stavamo viaggiando verso il confine bielorusso, ma sembrava di viaggiare verso la fine del mondo. Verso un luogo nel quale nessuno vuole andare. E sapevo benissimo il perché e, a dire il vero, un po’ mi inquietava.

All’improvviso ci fermammo davanti a un cancello. Davanti a noi c’era un grosso cartello con un simbolo inconfondibile: il segnale internazionale di pericolo di radiazioni. Le scritte in cirillico e in inglese non lasciavano troppi dubbi: zona contaminata da radiazioni. Eravamo giunti al Checkpoint di Dityatki, il punto di accesso alla Zona di Esclusione di 30Km.

Dopo il disastro di Chernobyl le autorità decisero di delimitare ed evacuare completamente tutta la zona inclusa nel raggio di 30 chilometri dalla centrale, allora abitata da oltre 120 mila persone. Nacque così la Zona di Alienazione (o di Esclusione), che oggi occupa un territorio ancor più vasto di quello originario. Le successive rilevazioni delle concentrazioni di isotopi radioattivi portarono a considerare contaminata una vasta area della Bielorussia e delle regioni di confine dell’Ucraina. Dopo il disastro di Chernobyl la nube radioattiva era stata spinta verso nord dai venti ed il fallout era avvenuto a macchia di leopardo.

L’area maggiormente contaminata dal disastro di Chernobyl è ancora oggi suddivisa in due zone: la Zona dei 30 chilometri e la Zona dei 10 chilometri, concentriche, a seconda della distanza dalla Centrale. La zona è amministrata da un ente governativo appositamente costituito e una agenzia speciale si occupa di tutto quello che concerne la vigilanza e la gestione dei permessi di accesso. I checkpoint ed il territorio sono sorvegliati giorno e notte da un reparto speciale della polizia, l’accesso non autorizzato è reato penale. 

Una guardia armata si avvicinò al furgone e ci ordinò di scendere. Serhii mi diede dei fogli sui quali erano riportate le mie generalità e mi disse di firmarli. Era una specie di appello, ogni persona in ingresso alla zona doveva essere identificata e, con una firma, andava ad assumersi anche la responsabilità di tutto ciò che sarebbe successo nella Zona. In pratica se fossi rimasto contaminato durante il mio viaggio nella Zona, o se avessi in seguito manifestato problemi di salute, non me la sarei potuta prendere con nessuno se non con me stesso.

Road to Chernobyl: la strada deserta corre dritta verso la Zona di Esclusione

La guardia controllò attentamente anche il mio passaporto e confrontò i dati con quelli presenti sul foglio. A quel punto Serhii gli consegnò un pacco di fogli, praticamente tutta la documentazione di autorizzazione della nostra visita. Circa un mese prima avevo preso contatti con una agenzia che si occupa di visite guidate nella Zona di Chernobyl e avevo preso accordi con loro per il tour. Si fecero inviare tutta una serie di dati e gli estremi del mio passaporto per poter inoltrare la pratica per l’autorizzazione. Funziona così, si richiede il permesso nel quale occorre specificare esattamente l’itinerario di visita, si pagano dei diritti per la pratica, l’agenzia governativa la esamina e verifica la fattibilità dell’itinerario in base alle attuali condizioni di sicurezza della zona, alla fine concede o meno il permesso. 

Ma non era finita lì. In realtà, con tanto di permesso in mano, la certezza di poter entrare nella Zona la si ha soltanto nel momento in cui le guardie lo consentono. Se per qualsiasi motivo nel giorno della visita dovessero esserci problemi di sicurezza la visita verrebbe annullata senza preavviso e senza rimedio. Per fortuna le cose filarono tutte lisce e, dopo qualche minuto, le guardie aprirono il cancello e il furgone ripartì. Davanti a noi una strada dritta e deserta correva nella foresta, l’asfalto era cotto dal sole, la segnaletica mezza sbiadita. Eravamo entrati nella Zona di Esclusione di Chernobyl.

LA TESTIMONIANZA PIU’ IMPORTANTE

Questo viaggio cerca di approfondire anche tutti i luoghi che si sono resi involontari protagonisti della storia che riguarda il disastro. Uno dopo l’altro ho cercato di scovare, visitare e portare a galla la storia di ogni singolo edificio. In tutto questo ho avuto con me una specie di Sacra Bibbia di Chernobyl, che neanche a farlo apposta si chiama “Preghiera per Chernobyl“. E’ il capolavoro del Premio Nobel per la Letteratura Svetlana Aleksievic, ed è il libro su cui è basata la serie televisiva HBO “Chernobyl”. In questo libro sono riportati fedelmente dialoghi, interviste, racconti, scene di vita prima e dopo l’apocalisse nucleare.

E’ un testo di una valenza scientifica e storica inquantificabile. Questo e “Benvenuti a Chernobyl” che è un altro libro eccezionale ed illuminante sulle principali catastrofi ambientali ancora in corso nel mondo, sono stati nel mio zaino come principali compagni in questo viaggio e come perfetta compagnia nelle nottate passate negli scompartimenti letto dei treni sovietici.

In particolare vi consiglio davvero tantissimo “Preghiera per Chernobyl“, è a mio avviso un libro indispensabile per chi vuole saperne di più su Chernobyl.

DENTRO LA ZONA

Poco dopo il furgone accostò su un lato della strada, davanti quello che sembrava e infatti era un monumento ai caduti della Seconda Guerra Mondiale. Serhii si voltò verso di me e mi disse: «Zalissya!».

Zalissya è il primo villaggio che si incontra entrando nella Zona. Fu evacuato completamente dopo il disastro di Chernobyl e oggi ne rimane davvero ben poco. Scendemmo dal furgone e ci incamminammo per un sentiero nella foresta. Dalla vegetazione spuntavano delle casette in mattoni di un solo piano. Ci fermammo davanti una di queste sulla quale si leggevano ancora le lettere di una insegna: магазин, magazin, negozio. 

Interni del Palazzo della Cultura di Zalissya

Poco più avanti si scorgeva un altro bell’edificio con un grosso emblema sovietico sulla facciata: il palazzo della cultura. Questa istituzione era presente in moltissime città e cittadine dell’Unione Sovietica e fungeva da fulcro di tutte le attività sociali e ricreative. Decisi di dare un’occhiata al suo interno e, una volta varcata la porta, rimasi estasiato. Era la sala di un teatro e sul boccascena campeggiava una grossa scritta della propaganda sovietica. Altre insegne di propaganda erano sparse per tutta la sala, sembrava realmente di essere stati catapultati indietro di trent’anni.

CHERNOBYL OGGI

Proseguendo lungo la strada arrivammo a Chernobyl. Una insegna sovietica riportava il nome della città, come a volerci dare un caloroso benvenuto. Sul nome della città faceva bella mostra di se una stilizzazione del modello atomico, a vanto della maggior industria della cittadina: la Centrale Nucleare.

Chernobyl mi lasciò subito piuttosto stupito. Mi aspettavo un piccolo villaggio fantasma, abbandonato e degradato, invece ero appena arrivato in una graziosa cittadina colorata, pulita e ordinata. Non riuscivo a capire, ero nel cuore del peggior disastro radioattivo che la storia avesse mai conosciuto, eppure sembrava un posto talmente normale da fare un dispetto al suo nome ormai capace di evocare immagini talmente mostruose e spaventose.

Chernobyl oggi appare come una cittadina tranquilla, semideserta, ma tutt’altro che abbandonata a se stessa. I prati sono verdi e ben curati, gli edifici sono quasi tutti disabitati ma comunque vengono sorvegliati ancora dalla polizia. Nelle case ancora tutto è rimasto come un tempo. Ogni tanto si vede qualche militare in giro o qualche operaio della Centrale. Alcune delle palazzine ospitano ostelli per gli operai, molti dei quali impegnati nei lavori di costruzione del Nuovo Confinamento Sicuro, il nuovo sarcofago del reattore del disastro.

Arrivammo davanti una piazzetta con una statua ed un viale. Avevo la pelle d’oca, guardavo il viale che era costeggiato da tanti cartelli, su ognuno dei quali era scritto il nome di una località diversa. Erano i villaggi e le città cancellate dal disastro di Chernobyl. Questo oggi è il Memoriale di Chernobyl, dove ogni anno il 26 aprile si tiene la commemorazione della ricorrenza del disastro. Vicino c’è una cassetta postale con le indicazioni dei vari villaggi di destinazione, le cassette sono sempre vuote, quei villaggi non esistono più.

A due passi dal Memoriale raggiungemmo la sede dell’Agenzia di Amministrazione della Zona di Esclusione di Chernobyl, passammo davanti al monumento donato dal Giappone in ricordo dei peggiori disastri nucleari della storia, compreso quello recente di Fukushima e successivamente ci fermammo ad ammirare la statua di Lenin.

Chernobyl oggi è ridotta ad una piccola cittadina militarizzata e dedicata per lo più alle operazioni di smaltimento delle scorie radioattive. Dopo il disastro l’intera area fu ripulita dai liquidatori, un esercito di civili e militari chiamati a “liquidare le conseguenze del disastro di Chernobyl“. Furono impiegati un numero impressionante di mezzi ed elicotteri e alla fine fu abbandonato tutto qui, all’interno della zona. Migliaia di veicoli contaminati giacciono ancora nei vari angoli della Zona di Esclusione. Una gran parte è stata circoscritta in alcune aree, come i cosiddetti cimiteri di Rossokha e Burakivka, pieni di mezzi fortemente radioattivi. Queste aree si trovano in zone isolate, sorvegliate e circondate da filo spinato e oggi sono in corso le operazioni di smaltimento.

Il monumento agli Eroi di Chernobyl davanti la caserma dei Vigili del Fuoco

Davanti la caserma dei pompieri di Chernobyl ci sono in esposizione alcuni mezzi utilizzati per ripulire l’area dopo l’incidente. E poi c’è il monumento ai pompieri che hanno perso la vita nelle operazioni di spegnimento degli incendi successivi al disastro. La targa recita “A coloro che salvarono il mondo” e, con tutta probabilità, loro con il loro sacrificio e tante altre persone che limitarono le conseguenze del disastro di Chernobyl il mondo lo hanno salvato per davvero.

CHERNOBYL-2

Da qualche parte avevo letto dell’esistenza di una città segreta vicino Chernobyl, chiamata Chernobyl-2. Una intera città militare nascosta nel cuore della foresta, costruita al servizio di una immensa installazione radar: il Duga-3, sistema a lungo raggio facente parte dello scudo missilistico sovietico.

L’ingresso principale della vecchia base top secret del Duga-3

Il Duga-3 è stato un grande mistero dell’epoca sovietica, le sue frequenze disturbavano le comunicazioni di mezzo mondo e da ogni parte del globo era possibile intercettarne il rumore, simile a quello di un picchio. Proprio questo gli era valso l’appellativo di “Picchio Russo“. L’installazione aveva avuto un costo tre volte maggiore dell’intera Centrale Nucleare e a quanto pare sembrava non funzionare correttamente, per questo alcune tesi complottiste sostengono che l’antenna potesse essere in qualche modo implicata con il disastro.

Avevo saputo che da qualche anno la struttura era stata declassificata e quindi la base non era più segreta e inavvicinabile. Volevo vederla a qualsiasi costo e chiesi esplicitamente di poterlo fare. Con mia immensa gioia fui accontentato.

Viaggiamo dunque lungo la strada per Pripyat fino a quando il furgone all’improvviso deviò per una stradina che sembrava puntare direttamente nella foresta. Percorremmo per oltre un quarto d’ora un lastricato di cemento nascosto tra gli arbusti, una strada che fino a poco tempo fa non era riportata su nessuna mappa e di cui nessuno conosceva l’esistenza. 

Non avrei mai sospettato che il Duga-3 si nascondesse proprio da queste parti, nel cuore di una fitta foresta. Alla fine il furgone accostò in una piazzola davanti ad un cancello con grosse due stelle di metallo luccicante. Immediatamente uscì fuori una guardia, e questa cominciò a rivolgersi minacciosamente verso di noi in russo. Serhii scese a consegnare i fogli di autorizzazione, parlarono per un po’ e alla fine ci autorizzarono ad entrare nella base. Lasciammo lì il furgone e proseguimmo a piedi verso il Duga-3.

Chernobyl-2 oggi è una città fantasma, i suoi palazzi sono vuoti, vuoto è l’ospedale e le scuole, tutto è abbandonato e in rovina. La centrale operativa del radar è in condizioni disastrose, le apparecchiature elettroniche sono state divelte e sparpagliate alla rinfusa ovunque.

La struttura è completamente fatiscente e si ha l’impressione che qualcuno abbia voluto danneggiarla pesantemente apposta, per impedire ad altri di ficcanasare troppo. L’antenna è lì, imponente, maestosa. Le dimensioni non possono essere spiegate e tantomeno immaginate. Ci si sente estremamente piccoli al cospetto di un immenso gigante di acciaio.


LEGGI IL REPORTAGE SUL “DUGA”: IL RADAR SEGRETO DELL’URSS

THE RUSSIAN WOODPECKER: IL PICCHIO DI CHERNOBYL


KOPACHI IL VILLAGGIO SEPOLTO

Sulla strada verso Pripyat ci imbattemmo in un secondo Checkpoint. Davanti a noi una sbarra e delle guardie armate. Serhii si raccomandò verso di me di non fotografare il checkpoint e i soldati, ricordandomi uno dei tassativi divieti della Zona. Ancora un pacco di scartoffie per le guardie e la sbarra andò su permettendoci l’ingresso nella Zona dei 10 chilometri.

A metà strada tra Chernobyl e Pripyat il mio rilevatore di radiazioni cominciava ad emettere un crepitio sostenuto proprio quando all’improvviso il furgone si fermò da un lato della strada, davanti ad un grosso cumulo di terra nascosto tra gli alberi.

Serhii esclamò: «Kopachi, villaggio sepolto». Tra le erbacce spuntava un cartello di pericolo di radiazioni e di fianco la scritta in cirillico Копачі, Kopachi.

Tutto ciò che resta del villaggio di Kopachi. Dopo il disastro di Chernobyl le case furono abbattute una ad una e sepolte sotto cumuli di terra.

Il villaggio dopo il disastro di Chernobyl venne trovato talmente contaminato che fu deciso di seppellirlo completamente. Le sue case erano costruite in legno, un materiale impossibile da decontaminare, per questo furono abbattute e sepolte dentro enormi fosse.

L’asilo di Kopachi è tutto ciò che resta del villaggio dopo il disastro di Chernobyl

Oggi ci si domanda se questa azione in realtà non abbia provocato danni ancor più grandi permettendo agli isotopi radioattivi di penetrare in profondità nel terreno e raggiungere le falde acquifere. Ciò che resta di Kopachi sono solo cumuli di terra ed un solo edificio in mattoni: l’asilo.

LA FORESTA ROSSA

Prima di giungere a Pripyat attraversammo un tratto di foresta molto particolare. Il mio rilevatore di radioattività sembrava essere impazzito, continuava a salire senza pietà e in qualche secondo raggiunse quello che avevo impostato come livello di guardia attivando quindi il cicalino di sicurezza. Serhii si voltò verso di me con aria tranquilla: «Stiamo attraversando Foresta Rossa». 

La Foresta Rossa è uno dei luoghi più contaminati della Zona di Chernobyl. La cosa cominciava a farsi seria ed io mi sentivo in preda ad un cocktail di emozioni, forse ero divertito, forse ero stupito, forse ero entusiasta di avere davanti a me qualcosa che prima d’ora avevo solo letto sui libri, o forse me la stavo facendo sotto. Nelle ore successive al disastro le polveri radioattive vennero spinte dal vento in direzione della foresta, il fallout fu pesante. Nei giorni successivi le piante virarono al rosso, poi morirono. 

L’intera foresta fu rasa al suolo e interrata in grosse vasche di cemento armato. Al suo posto è nata una nuova foresta, ma il suolo è ancora molto contaminato. La zona però, grazie alla totale assenza di attività umane, di pesticidi, di inquinamento chimico, acustico o luminoso, si è ripopolata di moltissime specie animali e vegetali.

La biodiversità qui è veramente vasta tant’è che il governo bielorusso, nella parte della Zona situata nel suo territorio, ha istituito una riserva naturale radiologica che, tra l’altro, in molti punti offre un interessante spaccato della vita agricola nell’epoca sovietica, con le macchine e le attrezzature dei kolchoz abbandonate sui campi.

PRIPYAT: IL VERO CUORE DEL DISASTRO DI CHERNOBYL

Subito dopo aver attraversato la Foresta Rossa ci trovammo davanti al segnale stradale che ci dava il benvenuto a Pripyat, la città più grande della Zona e la più vicina alla Centrale Nucleare. Proseguendo lungo la strada ci trovammo davanti una ulteriore sbarra, il Checkpoint di ingresso a Pripyat. La guardia la tirò su a mano e continuammo immettendoci in uno dei viali principali della città. Arrivammo fin davanti il Pripyat Café, una delle caffetterie più esclusive della città, affacciata sul molo fluviale.

La banchina sul fiume Pripyat alle spalle del Café Pripyat, all’epoca uno dei luoghi più esclusivi della città

Scendemmo dal furgone e ci incamminammo per una delle strade di Pripyat, ormai quasi inghiottita dalla vegetazione. Serhii si accese una sigaretta e, tra una boccata di fumo e l’altra, mi disse: «Non allontanarti troppo da dove ti dico io. Non camminare sul fango e soprattutto fai attenzione al muschio. Muschio concentra le radiazioni. Se non farai troppo di testa tua non ci saranno problemi, altrimenti rischi di contaminarti e poi avremo problemi ai controlli». 

Davanti a noi c’era un bell’albero da frutto, lo guardò e aggiunse: «Ah, non mangiare frutti. Ehm… puoi mangiare frutti, ma potrebbe essere ultima cosa che fai». 

Pripyat, il palazzo dell’amministrazione cittadina dove dopo il disastro ha avuto sede l’ente per la decontaminazione e lo smaltimento dei rifiuti radioattivi

Eravamo in una città enorme, che prima del disastro era abitata da 50.000 persone. Adesso c’eravamo noi, le zanzare e gli uccelli che cinguettavano. Le sagome degli edifici si stagliavano su ritagli di cielo azzurro, circondate da una vegetazione talmente folta da sentirsi approdati in una Atlantide nascosta nel bel mezzo di una foresta. Le insegne sovietiche svettavano ancora sui palazzi, i manifesti di propaganda erano appesi ai muri e nelle bacheche degli uffici. Tutto era vuoto e in rovina.

Manifesti di Propaganda Sovietica in una scuola di Pripyat

Le barbarie, il tempo, il vento, la neve e gli sciacalli avevano trasformato una moderna città sovietica nel perfetto scenario post apocalittico. Entrai in alcuni edifici, raggiunsi i luoghi più intimi della città. L’odore della polvere mi colmava le narici ed io cercavo di respirare il meno profondamente possibile nei momenti in cui, come fosse un flash, mi riappariva il ricordo di trovarmi in un luogo dove la contaminazione radioattiva è ovunque, anche nella polvere.

Pripyat, l’Hotel Polissya costruito negli anni ’70 principalmente per ospitare le personalità in visita alla Centrale Nucleare di Chernobyl

Passai dal buio degli scantinati e dei sotterranei, saturi di un silenzio di morte, alla vertigine dei tetti. E sul terrazzo di un palazzo di sedici piani la città era tutta mia, tutta ai miei piedi, silente e tetra. Ero diventato uno Stalker, me ne stavo sui tetti a fissare la sagoma del reattore. Una visuale ottima, come quella ricercata dagli abitanti di Pripyat che quella maledetta notte arrivarono fin sopra il ponte della ferrovia per vedere meglio lo spettacolo. Ricevettero dosi di radiazioni disumane, ed oggi quel ponte lo chiamano “della morte”.


LEGGI IL REPORTAGE SULLA CITTA’ FANTASMA DI CHERNOBYL

PRIPYAT: NEL CUORE DEL DISASTRO DI CHERNOBYL


UNA NOTTE A CHERNOBYL

In serata tornammo a Chernobyl. Uscendo dalla Zona dei 10 chilometri le guardie ci fecero scendere dal furgone per essere sottoposti ai controlli dosimetrici. Nel frattempo anche il furgone veniva controllato con un contatore di radiazioni. Al controllo risultammo tutti puliti e quindi ci lasciarono proseguire.

Ci fermammo prima in un piccolo supermercato in vero, originale, vecchio stile sovietico per fare provviste per la serata. A servirci c’erano una donna di mezza età ed una ragazza. Gli chiedemmo una bottiglia di vodka, qualche bottiglia di birra e un pacchetto di sigarette. Scesero quanto richiesto dagli scaffali e ce lo misero sul bancone. 

Controlli in uno dei Checkpoint della Zona di Esclusione di Chernobyl

Dopo aver pagato e salutato le donne ci avviammo verso l’ostello in cui avremmo passato la nottata. Arrivammo così all’Hotel Desyatka, un piccolo e spartano albergo adibito ad ospitare le persone in visita a Chernobyl. Mi assegnarono una camera niente male, soprattutto se paragonata alle camerate e ai vagoni letto in cui avevo dormito durante il mio lungo viaggio on the road dall’Italia per arrivare qui.

In fondo sembrava un ostello come tutti gli altri, se non fosse stato per il foglio con la procedura in caso di allarme radiologico e il regolamento della Zona di Esclusione attaccato sul muro della stanza: vietato mangiare e bere all’aria aperta, vietato fumare, vietato bere alcolici e fare uso di droghe, vietato asportare oggetti, vietato poggiare qualsiasi oggetto personale sul suolo pena la confisca.

Tutta una serie di divieti (di cui una buona parte mi sembra vengano comunemente ignorati, tra l’altro) uniti a tutta una serie di obblighi legati all’abbigliamento. Ci facemmo una rapida doccia, ci concedemmo una abbondante cena tipica ucraina e poi andammo a rintanarci nelle nostre stanze. 

Mentre stavo per salire in stanza vidi Serhii che stava fumando sulla panchina davanti l’albergo e lo raggiunsi. Ci fermammo a scambiare due chiacchiere sulle nostre vite, sui nostri lavori. Mi fece notare che, proprio davanti la porta di ingresso era situato un rilevatore di radiazioni. In effetti avevo già controllato con il mio contatore Geiger e il livello di radioattività lì era praticamente normale, del tutto simile a quello di Kiev.


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GUIDA: COME VISITARE CHERNOBYL


Dopo poco ci salutammo e tornammo nelle nostre stanze. A Chernobyl la notte non c’è molto da fare. Nel paese la sera scatta il coprifuoco ed è fatto divieto a chiunque di avventurarsi in giro da solo. Nel caso in cui avessi deciso di farmi un giro fuori dal recinto dell’hotel avrei dovuto ben guardarmi intorno cercando di non farmi notare dai pattugliamenti della polizia. Le guardie hanno l’ordine di fermare chiunque, identificarlo e portarlo nella locale stazione di polizia. A quel punto chiamano la tua guida e ti tengono in caserma fino a quando questa non arriva a riprenderti.

Scrivendo il reportage nella mia stanza nell’albergo per visitatori di Chernobyl.

Ma non avevo alcuna voglia di mettermi nei guai, per cui me ne tornai in stanza, stappai una buona bottiglia di birra e mi misi sul letto ad annotare i miei appunti, a scrivere i miei Chernobyl Diaries. Nel frattempo la donna del servizio alle camere entrava e usciva dalla mia stanza, una volta per attaccare un antizanzare elettrico, poi per attaccare un ventilatore. Soprattutto di zanzare ce ne sono molte da queste parti.

Dopo una mezz’oretta impostai la sveglia e spensi la luce, ero in un letto nel bel mezzo di una zona flagellata da una apocalisse nucleare, in un paese dal nome mostruoso che solo a pronunciarlo incute terrore in mezzo mondo, eppure tutto sembrava insolitamente tranquillo, come se non ci fosse nulla di più normale al mondo. E quindi, mi addormentai. Buonanotte Chernobyl.

A TU PER TU CON IL MOSTRO

Il giorno successivo continuai l’esplorazione di Pripyat, una città talmente grande da richiedere molti giorni per essere visitata in maniera accurata. Verso metà giornata ci spostammo verso la Centrale, passammo davanti la Stazione dei Vigili del Fuoco n.2 della Centrale di Chernobyl, dalla quale quella maledetta notte del 26 aprile 1986 partirono le prime squadre accorse sul reattore subito dopo il disastro. I pompieri in servizio quella notte morirono quasi tutti nel giro di pochi giorni. Avevano tutti meno di trent’anni, vivevano nella caserma con le loro famiglie, erano un’unica famiglia e amavano il loro lavoro.

La stazione dei Vigili del Fuoco della Centrale Nucleare di Chernobyl: da qui sono partite le prime squadre di soccorsi dopo il disastro

Oggi sono sepolti a Mosca nel cimitero Mytynsky, in apposite bare di piombo. Nei giorni delle sepolture ci furono proteste davanti al cimitero, nessuno voleva ospitare quei corpi così radioattivi. Erano diventati loro stessi un reattore. I familiari delle vittime chiesero di poter riavere le salme, ma gli fu negato. I loro corpi durante le terapie erano stati studiati e filmati, per la scienza. E alla fine i cadaveri erano troppo pericolosi per essere trasportati altrove. I pompieri di Chernobyl erano ormai degli eroi, e il corpo degli eroi appartiene allo Stato, non più alle famiglie, questa fu la giustificazione.

La Centrale Nucleare di Chernobyl appariva davanti a me in tutta la sua maestosità. L’impianto, la cui costruzione era iniziata negli anni settanta, operava con ben quattro reattori in grado di produrre 1 gigawatt di energia elettrica ciascuno. Il reattore n.4 era il più giovane, consegnato nel 1983 ed entrato in servizio l’anno successivo. Altri due reattori erano in costruzione al momento dell’incidente, il 5 e il 6. La Centrale Nucleare (ChNPP – Chernobyl Nuclear Power Plant) era dotata di reattori di fabbricazione sovietica del tipo RBMK, Reattore di Grande Potenza a Canali raffreddato ad acqua e moderato a grafite. L’impianto produceva energia elettrica e plutonio per uso militare.

La Unità n.4 della Centrale Nucleare di Chernobyl con il vecchio sarcofago costruito per isolare il reattore esploso

Dopo il disastro di Chernobyl si scoprì che i reattori RBMK avevano diverse pecche costruttive, per cui il sistema diventava instabile alle basse potenze termiche. Dai successivi rapporti e dichiarazioni emerse che questi reattori hanno per loro natura progettuale un coefficiente di vuoto positivo alle basse potenze, cioè più cresce la temperatura del liquido refrigerante più tendono a crearsi delle sacche di vapore nel reattore che tendono a portare ad un aumento, anziché ad una diminuzione, della reazione a catena che così rischia di andare fuori controllo. Questi reattori oggi sono ritenuti pericolosi, ma ce ne sono ancora almeno 11 in funzione in Russia, nelle centrali di Kursk, Leningrado e Smolensk.

Nel viale davanti il reattore esploso c’era un continuo via vai di operai. La Centrale di Chernobyl oggi è più viva che mai e brulica di gente ovunque. Siamo in pieno agosto, ma gli operai della Novarka indossano delle tute grigie a maniche lunghe. Lavorano a due passi dal mostro che ancora oggi sbuffa radiazioni in ogni direzione e la loro tutina da operaio è l’unica protezione che hanno.

L’area del Reattore n.4 della Centrale Nucleare di Chernobyl. Centinaia di operai ancora oggi lavorano nella Centrale.

Novarka è un consorzio formato da due grandi gruppi costruttori francesi, vincitore dell’appalto per la costruzione del Nuovo Confinamento Sicuro, un enorme arco che al termine dell’assemblaggio sarà destinato a scivolare fin sul reattore esploso, ad inglobare il vecchio sarcofago. A quel punto potranno cominciare i lavori di smantellamento del vecchio sarcofago che ad oggi versa in condizioni pessime. L’intera opera ha richiesto oltre 10 anni di lavori per essere completata e il 14 novembre 2016 ha cominciato il suo scivolamento verso il reattore: il 27 novembre il nuovo sarcofago finalmente inglobava perfettamente il vecchio.

La messa in posizione è terminata il 29 novembre 2016, i lavori per la chiusura dei muri perimetrali hanno richiesto ancora alcuni anni, e sebbene pianificati per la fine di agosto 2017, sono stati completi solo nella metà del 2019. L’intera struttura è costata circa 2 miliardi di euro, finanziati dalla comunità internazionale. Ci proteggerà per i prossimi 100 anni, a quel punto il problema si ripresenterà di nuovo, e continuerà ad essere così per qualche migliaio di anni.

Il Nuovo Confinamento Sicuro, il nuovo sarcofago prima della messa in opera a copertura della Unità n.4 esplosa

Il vecchio sarcofago fu costruito eroicamente nei mesi successivi al disastro. Le radiazioni erano talmente elevate da rendere il lavoro una impresa durissima, ma alla fine una folta schiera di biorobot, operai che esercitavano turni di pochi secondi ciascuno, riuscì a completare quello che ancora oggi è l’unico schermo tra il cuore pulsante e radiante dell’inferno atomico e il mondo. Qualsiasi tentativo di utilizzare robot e macchinari fu vano, le radiazioni erano talmente forti da mandarli in panne.

Quello che mancò furono le rifiniture di fino e la possibilità di fare delle manutenzioni, per questo il sarcofago è pieno di crepe e fessure tant’è che si stima che in totale ci sia una superficie esposta di oltre 100mq. Inoltre si verificano continuamente infiltrazioni di acqua piovana e di condensa che portano alla creazione di un pericolosissimo brodo radioattivo che rischia di permeare in falda.

Una delle due torri di raffreddamento degli incompiuti reattori n.5 e n.6 della Centrale di Chernobyl

Il vecchio sarcofago è ormai giunto alla fine del suo tempo di vita. In questi anni ha schermato almeno il 95% della radioattività che in sua assenza sarebbe stata immessa nell’atmosfera, ma ora è una struttura pericolante, una vera e propria bomba ad orologeria. Potrebbe collassare da un momento all’altro e le conseguenze sarebbero catastrofiche.

Arrivammo fin sotto il reattore n.4 esploso. Il sarcofago color ruggine appariva imponente a copertura del mostro. Adesso potevo guardarlo con i miei occhi, eravamo faccia a faccia. Ad ogni passo che facevo verso di lui il mio contatore Geiger crepitava il doppio. Pochi passi in avanti volevano dire aumentare l’esposizione anche di 1μSv/h. Io mi avvicinavo e lui, sbuffando particelle alfa, beta e gamma, mi teneva alla larga. Eravamo lì, a pochi metri dal cuore del disastro di Chernobyl, davanti all’assassino di migliaia di persone, il Reattore n.4

Il sarcofago nasconde un groviglio di macerie, 200 tonnellate di corium radioattivo, 30 tonnellate di polvere altamente contaminata, 16 tonnellate di uranio e plutonio. A complicare la situazione una enorme piastra in bilico, che una volta era il tappo del reattore, ed ancora i “Capelli di Elena“, fasci aggrovigliati di combustibile nucleare. Un inferno radiattivo capace di uccidere un uomo in pochi secondi. Ancora oggi neanche i robot riescono a sopravvivere, la radioattività uccide anche loro.

Restammo una decina di minuti a contemplare il reattore. Nel frattempo una guardia ci venne incontro per identificarci rimproverarci per esserci avvicinati troppo. Serhii mostrò il suo tesserino fornito dal Governo ucraino e i nostri fogli di autorizzazione, la guardia li controllò e poi si congedò da noi ricordandoci di non fotografare i checkpoint, i militari e i volti degli operai.

La sorveglianza era particolarmente elevata, ma tutto sommato l’atmosfera risultava di assoluta tranquillità. I cambi di turno tra gli operai avvenivano come in una normalissima fabbrica. La mensa della centrale continuava a dispensare pasti come sempre fatto dagli anni settanta. Nessuno si curava del fatto che tutti noi stavamo in quel momento rischiando grosso. Anche un piccolo cedimento del sarcofago poteva significare un grosso problema. Anche un banale incendio in una foresta vicino la centrale poteva sollevare il rilascio di fumi radioattivi. E noi non avremmo avuto scampo.

VIVERE NELLA ZONA DI ESCLUSIONE DI CHERNOBYL OGGI

Una settimana dopo il disastro di Chernobyl, il 2 maggio 1986, il Politburo sovietico decise per la creazione di una zona interdetta nel raggio di 30 chilometri dalla centrale e, quindi, per la totale evacuazione della popolazione interessata. L’operazione fu di una portata immensa e richiese oltre un mese per essere completa. Furono evacuate oltre 116.000 persone e spostati oltre 60.000 capi di bestiame. L’operazione fu di carattere militare, non vennero utilizzate mezze misure per costringere la popolazione ad abbandonare le proprie case.

Testi di propaganda sovietica sulle ideologie Leniniste su un tavolino di un edificio di Pripyat

Con il tempo moltissime persone cominciarono ad avere nostalgia di casa. La difficoltà di integrazione nelle nuove città fu pesantissima, complicata dalla difficoltà di trovare lavoro, di farsi accettare dalle altre persone, dal fatto di sentirsi trattati come persone malate e capaci di contagiare una malattia mortale. Negli anni successivi andò a disgregarsi anche l’Unione Sovietica e scoppiarono aspri conflitti etnici in alcune delle ex-repubbliche sovietiche. La povertà, la depressione o semplicemente la nostalgia di casa portarono diverse persone a fare la scelta di tornare a casa, illegalmente.

Le apparecchiature per i controlli dosimetrici presso uno dei checkpoint di Chernobyl. Sottoporsi al controllo è obbligatorio per tutte le persone in uscita. In caso di positività al test scatta un allarme e si viene messi in quarantena.

Uscendo dalla Zona dei 10 chilometri passammo di nuovo il controllo dosimetrico della milizia. Risultammo tutti puliti, compreso il furgone. Poco dopo svoltammo sulla statale diretta verso il confine bielorusso. Passammo attraverso il checkpoint delle guardie di frontiera ucraine, la frontiera bielorussa era a pochi metri da noi. Svoltammo per una strada di campagna e nel giro di qualche minuto sprofondammo in un paesaggio bucolico.

Ai lati della stradina si alternavano campi di erbacce e casette semi-diroccate. Passammo davanti la locale stazione dei vigili del fuoco, nel cui piazzale era parcheggiata una vecchia autopompa. Eravamo arrivati a Paryshiv, un piccolo villaggio dove ancora oggi vivono in maniera abusiva alcuni self-settlers, o come vengono definiti da quelle parti samosely. Il villaggio contava circa 700 abitanti prima del disastro di Chernobyl ed era uno scampolo di vera vita rurale. Oggi in tutta l’area vivono meno di 10 persone, anche piuttosto distanti l’una dall’altra.

Ivan Ivanovich, uno dei residenti illegali della Zona di Esclusione di Chernobyl

Uno degli abitanti abusivi della zona, Ivan Ivanovich, ci accolse in casa sua. Era un vecchietto piuttosto loquace, aveva da poco passato la soglia degli ottanta anni, come buona parte dei self-settlers della zona. Ci accomodammo nel giardino davanti casa sua. Ivan è stato uno degli evacuati di Chernobyl, ma questa cosa probabilmente non gli è mai andata giù. Decise quindi che sarebbe tornato a casa, e tornò nella sua Paryshiv, una zona tutto sommato neanche troppo contaminata. Con le sue mani ricostruì casa sua, tirò su con l’aiuto di sua moglie Maria una bella casetta in mattoni.


LEGGI LA STORIA DEI RESIDENTI ILLEGALI DELLA ZONA DI ESCLUSIONE

VIVERE OGGI A CHERNOBYL


Ivan oggi ha un orto con tutto il ben di Dio che la terra può offrirgli. Ha dei bei gattoni a fargli compagnia, galline, maiali e altre bestie per nutrirsi. Il livello di radiazioni è tutto sommato nella norma, la salubrità dell’aria indiscutibile rispetto a quella delle nostre città. Maria non ce l’ha fatta, è venuta a mancare da poco, il suo cuore era ormai stanco. Ma Ivan tira avanti, la mattina si sveglia e vede l’armonia e la pace della natura. La notte si addormenta ed è felice di essere ancora a casa.

GUERRA IN UCRAINA – AGGIORNAMENTI SULLA SITUAZIONE ATTUALE NELLA ZONA DI ESCLUSIONE

Per approfondire:

5 commenti su “Chernobyl Oggi: Viaggio nella Zona di Esclusione”

  1. Avevo già letto qualcosa di questa tragedia in un manoscritto ancora inedito di un mio conoscente ,racconti incredibili
    e soprattutto il coraggio di visitare e fotografare quelle zone

  2. questa estate ospiterò una bambina della zona discendente di quelle famiglie.. mi hanno detto che il loro problema principale è mangiare verdure non contaminate. Bellissimo articolo molto interessante che ha soddisfatto le mie curiosità intorno a quell’evento. Grazie

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