DIARI DI VIAGGIO / CHERNOBYL
Vivere oggi a Chernobyl
Le storie dei samosely, uomini e donne che sfidando le radiazioni hanno deciso di tornare a vivere nelle loro case in una delle zone più contaminate del pianeta: la Zona di Esclusione di Chernobyl.
Parishev è un villaggio che ufficialmente non esiste più. Nessuna traccia del suo nome sulle mappe, nessun modo di raggiungerlo con un autobus.
Il suo nome è sconosciuto perfino a Google Maps e dal satellite si riescono a malapena a riconoscere poche rare sagome di case che sembrano galleggiare nel nulla di una prateria desolata, nascosta da boschi e fiumi.
Per raggiungere Parishev bisogna abbandonare la strada principale che da Chernobyl porta in Bielorussia, svoltando subito dopo uno dei checkpoint delle guardie di frontiera, proprio quando all’orizzonte appare il confine bielorusso.
Si prende una stradina secondaria non segnalata e si prosegue verso i boschi e i prati. Bisogna essere piuttosto confidenti del fatto che prima o poi si troveranno delle case e che saranno per lo più vuote e abbandonate.
Sto costeggiando uno dei confini più tristi della Terra. La Bielorussia penetra con un ansa nel suolo ucraino, frapponendosi esattamente tra le città di Pripyat e Slavutich, il prima e il dopo Chernobyl.
Ciò che resta è una frontiera desolata, fatta di qualche reticolato, cancelli e guardie abituate a non vedere nessuno. D’altronde siamo nel bel mezzo della Zona di Esclusione, la geografia politica è sovvertita e non ha molto senso considerare un di qua e un di là della linea di confine. Ucraina di qua, Bielorussia di là.
Chernobyl ha trasformato tutto in una unica entità, quasi una nazione a parte: la Zona di Esclusione. E tanto vale per le genti, quelle di Chernobyl. Non più ucraini, bielorussi, russi, tagiki, lettoni e così via, ma chernobiliani.
Come a dire che non solo qui il tempo sembra fermo all’epoca sovietica, ma addirittura i popoli e i confini sembrano essere rimasti quelli di una volta, quelli di quando ancora si era tutti un unico popolo, sovietico per l’appunto.
L’Uomo Chernobiliano, come fosse una razza a parte, un’etichetta da portarsi appresso, un aggettivo dal suono aspro paragonabile solo a quello di un altro aggettivo: appestato.
Un unico popolo segnato dagli eventi di quella maledetta notte di aprile dell’86, plasmato dalla furia dell’atomo sovietico, deportato verso nuove terre, nuove occupazioni e nuove amicizie.
Dopo il disastro le popolazioni vennero trasferite in nuove città, disperse principalmente in Bielorussia, Ucraina e Russia Occidentale. Negli anni a venire si mise in moto una strana macchina di solidarietà: migliaia di bambini bielorussi andavano a “cambiare aria” e a fare visite mediche in paesi dell’Europa occidentale, quella industrializzata e “per bene”.
Famiglie francesi, italiane, tedesche facevano a gara per ospitare la “bambina bielorussa” di turno, la riempivano di regali, la portavano in grossi centri commerciali e bei posti.
Questi bambini sono cresciuti con l’idea del paese dei balocchi e puntualmente, ogni anno, tornavano a casa pieni di doni costosi e magliette che i genitori non avrebbero mai potuto permettersi. E tornavano a scuola, nelle città, con lo stesso interesse ed entusiasmo di chi vive in attesa del ritorno al paese dei balocchi.
Dopo il disastro nucleare la Zona intorno la centrale diventò zona di guerra. Le operazioni di evacuazione, deportazione di genti e animali e bonifica furono svolte dall’esercito, utilizzando mezzi e procedure militari.
Si parlava di sabotaggio, di “attacco al cuore della gloriosa unione delle repubbliche socialiste sovietiche”, rispolverando i migliori miti staliniani dell’uomo nero venuto da occidente, che ora si era reso responsabile di un vile fendente verso il progresso e la salute dell’Impero.
Gli uomini e le donne furono strappati alle case, così come alle terre. Persone che avevano sempre vissuto nella tranquillità della campagna, nutriti dalla generosità della buona terra, adesso si ritrovavano chiusi a marcire in anonimi condomini di qualche sterile città di cemento.
La cosa più difficile era comprenderne il motivo. La guerra, quella si che si riusciva a capire, la si vedeva. Le bombe erano reali, così come le pallottole dei tedeschi. La guerra l’avevano vista un po’ tutti, tranne i giovani. La fame pure.
Ma questa volta cosa diavolo stava succedendo? La terra regalava un raccolto meraviglioso, il nemico era invisibile e le persone non stavano morendo una dopo l’altra in preda ad una epidemia o un rastrellamento.
La popolazione rurale ucraina e bielorussa era fatta di gente semplice, che coltivava la terra, allevava animali. Parte della popolazione evacuata sentiva parlare per la prima volta di radiazione, non comprendeva bene cosa e quanto pericolosa potesse essere.
Gli spiegarono che questa radiazione era una malattia, era nell’aria, ma era invisibile. Gli animali la potevano avvertire, gli umani no.
Molte persone vennero portate via con la forza. Le case ritenute più contaminate vennero abbattute, mentre l’esercito andava in giro ad abbattere gli animali domestici vaganti.
Quasi tutti gli abitanti degli oltre 188 villaggi vennero trasferiti in altre città fuori dalla Zona, qualcuno invece si diede alla macchia fuggendo nella foresta e nascondendosi pur di restare.
Oggi nella Zona vivono un centinaio di persone, sparpagliate in ciò che resta dei vari villaggi e raramente il numero di abitanti per villaggio richiede più di una mano per portarne il conto.
Parishev è uno di questi villaggi fantasma e all’epoca del disastro vi abitavano più di mille persone. La strada è mangiata dalla vegetazione e il mio autista fatica ad orientarsi per trovare la casa della persona a cui sto andando a far visita. Da queste parti, infatti, abita uno dei self settler, così li chiamano gli abitanti illegali della Zona, o in ucraino samosely.
Ivan Ivanovich Semenyuk è la persona che sto andando a trovare, ha ottant’anni, ed è vedovo da quasi un anno. Sua moglie Maria è venuta a mancare all’età di 78 anni, dopo una vita passata insieme.
Fino alla fine ha lavorato la terra, sfamato gli animali e badato alla casa. E ancora oggi Ivan Ivanovich giura che la scelta di tornare a casa, a Parishev, è stata la migliore che avessero potuto mai fare.
Ci accoglie nel giardino di casa sua, quella casa che ha ricostruito con le sue stesse mani. Lui è ufficialmente un residente illegale, dal momento in cui nella Zona è vietata qualsiasi attività residenziale.
Lui e sua moglie sono stati evacuati dopo il disastro. Gli hanno dato un appartamento in un palazzone in cemento armato alle porte di Kiev.
La città però non ha mai fatto per loro, gente semplice, abituata alla vita di campagna. Anzi, la detestavano la città, e così hanno deciso di tornare a casa.
Come Ivan Ivanovich e Maria molte altre persone hanno faticato ad adattarsi alla nuova vita. Il desiderio di rivedere casa era fortissimo, d’altronde nel momento dell’evacuazione a molti si era promesso il ritorno.
Ed ecco che questi avevano lasciato ogni ben di Dio nelle dispense, vestiti negli armadi, gatti e cani chiusi in casa o nei recinti ad aspettare il padrone. E gli animali, quelli che non erano stati uccisi dai soldati o dai cacciatori ingaggiati dall’esercito, cominciavano a frugare in casa in preda alla fame, e poi venivano assaliti dai topi in un macabro banchetto.
Come si poteva sopportare tutto questo? Come si poteva resistere alla condizione di trovarsi tra quattro mura di cemento quando la fuori nella campagna splendeva il sole e il profumo dell’erba bagnata?
Per questo molti si misero in marcia verso casa. In tanti si accalcavano vicino i checkpoint cercando di supplicare i soldati affinché li lasciassero passare. E forse per qualche bottiglietta di vodka i ragazzi si lasciavano perfino corrompere, ed ecco che la Zona cominciava a svuotarsi e trasferirsi all’esterno, pezzo dopo pezzo, suppellettile dopo suppellettile.
E gli abitanti della Zona, quelli adulti, avevano vissuto una guerra. Avevano visto l’orrore in faccia e nel tempo avevano imparato a nascondersi dai soldati, a fuggire dalle rappresaglie attraverso sentieri selvaggi. Quelli stessi sentieri dei vecchi partigiani sarebbero diventati la via di ritorno a casa.
Ivan Ivanovich e Maria tornarono a casa nel 1988, due anni dopo il disastro di Chernobyl. La Zona si andava ripopolando di abusivi. A Parishev c’erano loro e un pugno di famiglie, intorno tanta terra da coltivare e boschi da tagliare.
Nei villaggi della Zona nei primi anni ’90 si insediarono anche nuovi abitanti. Fuorilegge, lupi solitari o persone in fuga dalle guerre che incendiavano una dopo l’altra le vecchie repubbliche dell’ormai caduto Impero sovietico. Ben presto le autorità decisero di rinunciare all’utilizzo della forza verso queste persone. Decisero piuttosto di far finta che non esistessero.
Ivan Ivanovich siede su una panca e si racconta. Le persone a quel tempo morivano se non per le radiazioni certamente per l’alcol. E lui invece, pur nutrendosi del frutto di una terra contaminata, ha varcato la soglia degli ottant’anni ancora in forze. Perché non ha mai avuto il vizio dell’alcol, sostiene fiero.
E ancora, sempre con fierezza, parla di come ha costruito la casa e del suo orto. In fondo non ha bisogno di molto, riesce a trarre dalla terra tutto ciò di cui necessita. La spesa, il contatto con la civiltà per approvvigionarsi di ciò che non può farsi da solo, avviene raramente dice, una volta al mese, quando cammina per chilometri fino al posto più vicino dove passa un autobus, e quindi fino al paese più vicino dove c’è uno spaccio.
Ivan vive da solo con i suoi gatti. Campa con poche grivnie di pensione e continua a dedicarsi tutto il giorno al lavoro dei campi, all’allevamento di galline e maiali e piccoli lavori di falegnameria.
Ora come un tempo l’alimento principale qui nella Zona è la patata e Ivan ne mostra fiero il raccolto. Il suo volto si illumina quando gli chiedo del suo orto. Insiste per farmelo vedere. Dietro casa sua scorre un piccolo ruscello che fornisce l’acqua necessaria per le coltivazioni e per la casa. I campi coltivati sono coperti dai frutti rigogliosi della terra, generosi, vivaci.
Sembra un piccolo angolo di eden, tutto intorno il silenzio, il cinguettio degli uccelli e il rumore del vento che accarezza i campi. Per curiosità rilevo la radioattività al suolo: 0,13 µSv/h, praticamente la stessa di Kiev.
Ed è mentre Ivan mi saluta e mi guarda andar via che comprendo la sua scelta e capisco che la natura, dopo aver ristabilito i suoi equilibri, è sempre magnanima con chi sceglie di viverci in armonia.
Bellissimo reportage. Complimenti!