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DIARI DI VIAGGIO / RUSSIA

Midnight in Moscow:
Racconti nella Notte dei Sobborghi di Mosca


Mosca, Russia, maggio 2015.

Era tutta la sera che vagavamo senza meta per le strade di Mosca. Le nostre ombre proiettate dal chiarore della luna ci facevano compagnia mentre percorrevamo in silenzio i viali.

Percorremmo tutta Novyj Arbat (Новый Арбат), un tempo occupata da casino e bische, adesso percorsa da auto di grossa cilindrata che sfrecciano a pieni giri sulla strada a tre corsie. Le serrande erano tutte abbassate e per strada non si incontrava quasi nessuno.

Passammo davanti la Chiesa di Simeone e mi meravigliai moltissimo di quella chiesetta, piccola e graziosa, circondata e soffocata dai grossi palazzoni di 26 piani dell’epoca stalinista. Una perla nana in un mondo di giganti. Restai altrettanto sorpreso quando ci trovammo davanti la Casa Bianca, eh si, perché questa non sta solo a Washington.

La Casa Bianca di Mosca, sede del Parlamento, è uno dei maggiori simboli del crollo dell’Unione Sovietica.

Da qui il Presidente Boris El’cin diresse la resistenza durante il tentativo di Colpo di Stato avvenuto nell’agosto del 1991 e qui si svolsero gli atti più drammatici della Crisi Costituzionale Russa del 1993, quando Yeltsin decise di sciogliere il Congresso dei Deputati del Popolo ed il suo Soviet Supremo, atto in contrasto con la Costituzione allora vigente.

Il Parlamento (allora ancora chiamato Soviet Supremo) si raccolse in un ultimo estremo atto di resistenza e seicento parlamentari si riunirono nella Casa Bianca, la sede del Soviet Supremo, per votare la decadenza di Yeltsin.

Il giorno successivo, il 24 settembre del 1993, Yeltsin fece tagliare acqua, luce e telefoni all’edificio della Casa Bianca. In breve tempo in tutta Mosca scoppiarono rivolte contro Yeltsin e l’edificio del parlamento diventò una polveriera, rifornita da gruppi paramilitari che si preparavano a difendere il Soviet da un eventuale assalto delle forze di sicurezza.

Il 4 ottobre, alle 8 di mattina, iniziò la massiccia operazione che mise fine alla storia del Soviet. I carri armati calibro 125 cominciarono a bombardare i piani alti della Casa Bianca e a seguire l’irruzione dei gruppi d’assalto delle forze speciali portò alla liberazione dell’edificio e all’arresto dei leader del parlamento. Negli scontri morirono tra le 200 e le 1000 persone.

La Casa Bianca oggi è lì inerme a guardare la Moscova, di fronte a lei l’Hotel Ukraina, una delle Sette Sorelle, la seconda per altezza con i suoi 34 piani e 198 metri. Oggi è un hotel di lusso, il Radisson Royal. Continuammo il nostro cammino seguendo la Moscova.

I grattacieli di Moscow City erano un insieme scintillante all’orizzonte e contribuivano a farmi sentire sempre più minuscolo in una città enorme. Deviammo per un vicolo laterale e da lì cominciammo a vagare per i sobborghi. Ci fermammo davanti ad un portone illuminato con l’insegna di un negozio. Entrammo dentro in cerca di qualcosa da bere.

La porticina ai piedi di uno dei tanti khrushchevki, palazzi anonimi di 5 piani, era illuminata da una luce fredda e bluastra. Percorremmo timidi i pochi scalini che ci separavano dalla porta d’ingresso, la varcammo.

Era seguita da un’altra porta, varcammo anche questa ed entrammo in un piccolo supermarket, illuminato a giorno e deserto. Sul fondo della stanza, alla nostra sinistra, un vecchietto se ne stava seduto su una sedia e ci osservava.

Chiedemmo in russo di acquistare qualcosa e ci fece cenno di aspettare. Comparve poco dopo una giovane donna a servirci, “Vorremmo qualcosa da bere” disse il mio amico.

La donna ci guardò infastidita, la legge russa vieta la vendita di alcolici dopo le 20, tuttavia basta aguzzare la vista e domandare un po’ in giro e qualche birretta ci si riesce comunque quasi sempre a procurarsela.

– “Siete della Polizia?” – rispose in maniera secca e dura la donna.
– “No, non siamo della polizia” – rispose il mio amico. 
– “Sicuri che non siete della polizia? Io non posso darvi nulla, è vietato” – replicò la donna non convinta e insospettita da noi, due uomini mai visti prima, alti, robusti, con giacche di pelle e che gli sono piombati nel negozio in piena notte.
– “Stai tranquilla. Siamo europei, non siamo della polizia, vogliamo solo qualcosa da bere e ce ne andiamo” – rispose di nuovo il mio amico, al che la donna disse “Bene, cosa volete?”. Prendemmo qualche birra, una bottiglietta da mezzo litro di vodka e ce ne andammo tra le raccomandazioni della donna: “Adesso non fatevi vedere in strada qui vicino”.

Poco dopo entrammo in un cortile, chiuso sui quattro lati da palazzine in stile sovietico. Il mio amico mi rassicurò “qui non è proprietà privata, non funziona come in Italia, qui possiamo stare”. Ci sedemmo su una panchina e nel silenzio ci godemmo la nostra birra fresca.

I palazzi erano illuminati dalla penombra dei lampioni, quasi tutte le finestre erano buie, mentre da un paio traspariva la luce della stanza. Ogni tanto arrivava qualcuno, percorreva a piedi il cortile e si infilava in uno dei portoni. Nessuno ha fatto storie, nessuno sembrava preoccuparsi di noi.

Per me era una sensazione forte, mi sentivo invasore dello spazio domestico di qualcuno, mentre sperimentavo proprio il concetto dell’assenza di spazio privato, mentre fissavo lo spiazzo di terra al centro del cortile, con l’altalena, qualche gioco semplice, i copertoni piantati nel terreno. 

Era tutto così come lo avevo immaginato, mi stavo avvicinando a quella Russia di cui avevo letto in libri e racconti, tanto diversa dall’onnipotenza, dalla maestosità e dal lusso del centro di Mosca.

E fu proprio in quel momento che il mio amico ruppe il silenzio, posò la birra a terra, prese una sigaretta dalla tasca e se l’accese. Mi guardò e mi disse:

“Ora mi sento a casa”

Lo guardai perplesso, intuì che quelle erano le prime parole di un discorso importante e lungo, di uno dei più potenti sfoghi al quale abbia mai assistito.

Dove sono cresciuto era proprio così, c’erano i palazzi identici a questi, il cortile, tutto uguale. Tutte le città della Russia erano così, tutte uguali. Io abitavo qui, nel palazzo di fronte abitava Andrej, in quello di fianco Yana. I giorni stavamo sempre per strada a giocare insieme fin quando le madri non ci urlavano dalla finestra di tornare a casa, e spesso non tornavamo. Allora scendevano e ci venivano a portare su con la forza.

Con noi c’era un bambino georgiano, i suoi genitori erano venuti ad abitare nella nostra città e ormai lui era diventato uno di noi. Tutti gli altri lo prendevano in giro, ma lui per noi era un amico come tutti gli altri, un russo come tutti.

Giocava con noi, veniva a mangiare a casa nostra, usciva con noi. Io avevo una ragazza, diciamo una fidanzata, Katya, e spesso i ragazzi più grandi davano fastidio alle nostre ragazze, tant’è che a volte scoppiavano delle risse. 

Una volta c’erano dei ragazzi che stavano importunando alcune nostre amiche e l’unico che si trovava lì in quel momento e andò a difenderle fu proprio il ragazzino georgiano, che però ebbe la peggio: lo pestarono di brutto e alla fine ci rimediò anche una coltellata.

Noi tutti organizzammo una spedizione contro chi gli aveva fatto del male, ne uscì fuori una rissa spaventosa della quale molti di noi ancora portano le cicatrici. Poi è andato via con la sua famiglia, ora non so che fine ha fatto.

Ogni tanto ce se le dava di santa ragione, se c’era qualcosa da chiarire ci si organizzava: noi di qua, loro di la, e ce se le dava fin quando qualcuno non interveniva a fermare la rissa o non restavano tutti per terra. Ma chi restava a terra era fuori dai giochi, non veniva più toccato. Ogni cosa ha le sue regole non scritte, ogni cosa ha il suo codice d’onore.

Ci divertivamo con poco, passavamo le giornate in strada a giocare tra di noi in mezzo ai palazzi. Facevamo la colletta per racimolare qualche rublo per rimediare qualche sigaretta da qualcuno più grande e poi la fumavamo tutti a turno.

Spesso andavamo in giro a recuperare le bottiglie di vetro, poi le portavamo alla fabbrica della birra che era in città dove ci davano qualche rublo in cambio. Così andavamo a comprarci un gelato o qualcosa per noi, chi aveva qualche rublo in tasca di solito lo metteva in comune con quelli che in tasca non avevano niente. Vivevamo di cose semplici, ci divertivamo con poco ma eravamo felici. Quella felicità ormai non esiste più e nessuno potrà mai ridarmela.

Sono andato via dalla Russia che ero poco più di un bambino, ora ritorno qui e trovo un Paese che non è più il mio, un Paese cambiato, le persone sono cambiate. Non ci sono più quei bambini di una volta, non c’è più quel gruppo di amici che era una cosa sola, senza niente in tasca ma felice. Niente più di questo c’è ormai.

Potrei anche tornare nella mia città, ritrovare i miei vecchi amici, quei pochi che son rimasti in città e quei pochi che non sono diventati criminali o drogati, potrei tornare ma non sarà mai la stessa cosa…” il discorso si interruppe, la sua voce si fece tremolante.

Il mio amico si voltò dall’altra parte, rivolse lo sguardo al cielo e restò in silenzio. Si alzò e cominciò a camminare nervosamente, per poi portarsi le mani sul volto ed asciugarsi le lacrime. Stava piangendo. “Nessuno può capire cosa significa. Quello che ho passato io, che ho visto io, nessuno può capirlo.”

Finimmo di bere continuando a raccontarci delle storie, nel frattempo il cielo si stava facendo sempre più chiaro e le luci della città cominciavano a spegnersi lasciando il posto alla luce del sole.

Ci alzammo e riprendemmo a camminare lasciandoci alle spalle la panchina davanti al portone di quella palazzina sovietica, che aveva fatto da sfondo ad una notte di racconti intensi ed intrisi di vita vissuta, racconti innocenti di infanzia che ormai lasciano il posto solo alla malinconia e alla consapevolezza di un qualcosa che ormai appartiene ad un passato che non può tornare.

Risalimmo lungo le rive della Moscova, la città ci appariva sotto la prima flebile luce del sole deserta e addormentata, era tutta lì, tutta nostra. Erano solo le 3.20 del mattino ma la notte sembrava solo un lontano ricordo.

Percorremmo a ritroso tutta la strada fatta fino a tornare in centro, costeggiammo le mura del Cremlino e da lì tornammo al nostro ostello. La città si stava pian piano risvegliando mentre noi rincasavamo, i rumori e i profumi di primavera riempivano le strade e noi eravamo lì, ad assistere al sorgere di una nuova alba su Mosca.

A volte l’uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza.

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