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GUIDE / CHERNOBYL

Pripyat: Viaggio nella Città Fantasma di Chernobyl

Era una moderna città di 50 mila abitanti, ora è la ghost town più grande, famosa e contaminata del globo. Alla scoperta di Pripyat, la città della centrale di Chernobyl.

Pripyat: nata grazie alla Centrale e morta per colpa della Centrale. 

Era una città di 50.000 abitanti prima di quel maledetto 26 aprile del 1986. Una città modello, costruita secondo i migliori criteri dell’architettura sovietica dei primi anni ’70 allo scopo di ospitare i lavoratori impegnati nella costruzione e nel futuro esercizio della Centrale Nucleare di Chernobyl.

GUERRA IN UCRAINA – AGGIORNAMENTI SULLA SITUAZIONE ATTUALE NELLA ZONA DI ESCLUSIONE

Costruita lungo la riva del fiume Pryp’jat’, al quale deve il nome, la città di Pripyat era progettata per offrire ogni comfort ai suoi abitanti: grandi aiuole piene di fiori colorati, viali alberati, giardini con giochi per i bambini, scuole di ogni ordine e grado, asili nido, due ospedali (di cui uno pediatrico), centri commerciali, cinema, teatro, stadio di calcio, centri sportivi, piscine, due alberghi e tanti café.

Come in ogni città sovietica vi era un Palazzo della Cultura, con tanto di biblioteca, cinema, palestre per la ginnastica e per giochi di squadra (come la pallacanestro), ring per gli sport da combattimento e poligoni di tiro.

La città inoltre aveva un porto fluviale, una stazione ferroviaria e una autostazione che la collegavano ai villaggi limitrofi e alle principali città ucraine e bielorusse. Nonostante il rigore estetico dettato dall’architettura sovietica, Pripyat aveva tutti i presupposti per essere una città moderna e funzionale e la qualità della vita in effetti risultava di gran lunga migliore rispetto a quella di molte altre città sovietiche.

PRIPYAT: DA ATOMGRAD MODELLO A CITTÀ FANTASMA

La vita a Pripyat scorreva piuttosto normalmente prima di essere sconvolta dall’apocalisse nucleare. Le persone vivevano piuttosto bene, i supermercati erano riforniti di ogni ben di Dio con una possibilità di scelta molto ampia per l’epoca.

A Pripyat c’era perfino un grande supermercato con scaffali dai quali ognuno poteva servirsi in autonomia, una novità per le città sovietiche dove di norma i supermercati erano strutturati come delle drogherie, dove gli scaffali erano dietro un bancone e qualsiasi cosa andava ordinata alla commessa. Ancora oggi a Chernobyl è possibile fare acquisti in un supermercato in vero stile sovietico, rimasto perfettamente come un tempo.

I bambini potevano godere di una buona istruzione nelle scuole locali e per gli adolescenti non mancavano le opportunità di socializzare e praticare sport. Le vite degli abitanti erano comunque indissolubilmente legate alla Centrale Nucleare di Chernobyl, una delle più grandi d’Europa.

Una buona parte degli abitanti della città lavorava, infatti, nella centrale. Ingegneri, dirigenti, impiegati e operai. Poi c’era ovviamente chi era impiegato nell’ordine pubblico e nella sicurezza, la milizia, la polizia, i pompieri.

Chi si occupava dei servizi, dalla posta alle scuole, fino alla pulizia delle strade. Poi c’era chi lavorava nelle varie attività commerciali e negli alberghi e per finire c’era chi lavorava alla Jupiter.

La Jupiter ufficialmente era una fabbrica di registratori a nastro, ma è molto probabile che la sua attività in realtà fungesse solo da copertura per quella che di fatto era una industria segreta impegnata in tutt’altra attività, ovvero quella della progettazione e costruzione di componenti per l’industria militare, probabilmente semiconduttori e sistemi robotici.

A Pripyat tutta la manodopera specializzata era impiegata nella Centrale e, subito dopo per numero, nella Fabbrica Jupiter.

La Centrale Nucleare di Chernobyl dista solo 3 chilometri. E’ possibile scorgerne chiaramente la sagoma dalle finestre dei palazzi di 16 piani di Pripyat. Il 26 aprile del 1986 era una bella e calda giornata di primavera. Nell’aria c’era una tranquillità che neanche lontanamente poteva lasciar immaginare l’orrore che di lì a poco si sarebbe verificato. 

E se l’incidente di Chernobyl è frutto di una serie di sfortunate (e quantomeno prevedibili) coincidenze, sembra un segno del fato il fatto che quella notte tra venerdì e sabato le temperature fossero tornate per la prima volta gradevoli dopo il lungo inverno, così tanto da invogliare le persone ad attardarsi sui balconi, sui davanzali delle finestre, per le strade o addirittura pescando lungo le rive del fiume.

Queste persone furono il primo inconsapevole pubblico di quello spettacolo che da lì a poco avrebbe fatto parlare il mondo.

Videro all’improvviso un cielo pieno di stelle enormi e luminose, che cadendo finivano per spegnersi lasciando una scia come un fuoco d’artificio. Il cielo era come illuminato da un bagliore rosso, molto luminoso. «Non avevo mai visto niente di simile, neanche al cinema», racconta Nadezhda Petrovna Vygovskaya, una delle evacuate di Pripyat.

E così i genitori svegliarono i figli, li portarono fuori a vedere lo spettacolo e tutti ne rimasero meravigliati, non preoccupandosi troppo di quella polvere nera che nel frattempo cominciava a scendere dal cielo. E nel frattempo si sentiva nell’aria uno strano odore e quella polvere cominciava a pizzicare in gola e a bruciare gli occhi. Ma nessuno se ne preoccupò troppo.

Non sapevamo che la morte potesse essere così bella.

N. Vygovskaya. Ex abitante di Pripyat.

La mattina successiva a Pripyat nessuno sospettò di nulla. Le persone andarono a lavoro, le madri portarono regolarmente i loro figli a scuola e tornarono a casa a preparare il pranzo. Sedici coppie si unirono in matrimonio.

Ma qualcosa era cambiato per sempre, e qualcuno cominciava pian piano a rendersene conto guardando le strade riempirsi, già dalle prime luci del mattino, di polizia ed esercito. E non potendo fare a meno di notare che tra i militari, molti indossavano le maschere antigas.

Una cosa però non ci voleva proprio entrare in testa, ed era che l’atomo pacifico potesse uccidere. E che l’uomo potesse risultare impotente di fronte alle leggi della fisica

N. Vygovskaya. Ex abitante di Pripyat.

A mezzogiorno di sabato iniziarono le rilevazioni della radioattività nella città. I livelli furono trovati già superiori di 1000 volte rispetto a quelli dovuti alla normale radiazione di fondo.

Nella serata di sabato la Commissione del Governo centrale di Mosca decise per l’evacuazione, da tenersi il giorno successivo, domenica 27 novembre.

Durante la notte cominciarono ad arrivare autobus provenienti da Kiev e da tutte le zone circostanti. A mezzogiorno di domenica venne diffuso via radio e attraverso degli altoparlanti il messaggio di evacuazione.

“Il Partito Comunista, i suoi funzionari e le forze armate stanno dunque adottando le dovute misure. Tuttavia, al fine di garantire la totale incolumità delle persone, e in primo luogo dei bambini, si rende necessario evacuare temporaneamente i cittadini nei vicini centri abitati della regione di Kiev. A tale scopo, oggi 27 aprile, a partire dalle ore 14, saranno inviati autobus sotto la supervisione della polizia e dei funzionari della città. Si raccomanda di portare con sé i documenti, gli effetti personali strettamente necessari e prodotti alimentari di prima necessità”

Annuncio di Evacuazione della Città di Pripyat

Una evacuazione, dunque, temporanea. Gli abitanti di Pripyat furono caricati sugli oltre 1200 autobus accorsi da Kiev e deportati nelle città circostanti. Da lì poi distribuiti in varie città e villaggi, chi a Kiev, chi a Mosca, chi in altre zone. Pian piano andava a delinearsi il fatto che l’evacuazione da temporanea sarebbe diventata definitiva e che nessuno avrebbe mai più fatto ritorno a casa.

L’evacuazione avvenne in maniera esemplare, rapida e fluida. In meno di tre ore la città fu svuotata, eccezione fatta per le persone ritenute indispensabili per il funzionamento dei servizi essenziali della città.

Una colonna autobus lunga più di 15 chilometri lasciò la città scortata dalla polizia.

Il rumore di quello che stava succedendo coinvolse anche alla vicina cittadina di Chernobyl, che invece fu evacuata il 5 maggio, nell’ambito di un piano di evacuazione ben più ampio che coinvolse ben 179 villaggi.

DELLA VITA DI PRIPYAT

Atomgrad è un termine che generalmente viene usato per riferirsi alle città sovietiche costruite al servizio di impianti atomici, il più delle volte centrali nucleari.

E’ un concetto legato direttamente ad un altro altrettanto affascinante, quello delle città chiuse, ovvero una lunga serie di città, alcune anche molto grandi, nate attorno ad impianti di importanza strategica o militare, anche a carattere atomico, oppure vicino ad importanti e preziosi giacimenti.

Le città chiuse sono un fenomeno ancora esistente in Russia, e accedervi è praticamente impossibile per uno straniero ed estremamente rischioso per chiunque non vi sia regolarmente residente o munito di regolari permessi speciali.

Pripyat sostanzialmente era una città giovane, una atomgrad a tutti gli effetti, abitata da persone mediamente istruite e comunque collegate in qualche modo al lavoro nella Centrale Nucleare. L’istruzione è sempre stata un pilastro centrale nelle politiche sovietiche, per cui non sorprende quanto fosse ampia l’offerta di scuole e asili presenti a Pripyat. 

Il sistema scolastico sovietico era estremamente attento alla metodologia dell’insegnamento, alla pedagogia, e tenuto in piedi dalle ideologie che permeavano tutto il corpo docente, con un approccio mirato ad annullare la personale competizione in favore della collaborazione.

Questo aveva una meravigliosa applicazione nello studio delle scienze, in particolare della matematica, della fisica e della chimica: il culto della scienza e dello scienziato come professione di massa, necessaria al progresso quanto alla sopravvivenza. Quello stesso progresso che diventerà presto contemporaneamente alleato ed avversario della sopravvivenza stessa. 

Molti abitanti di Pripyat provenivano dalla Russia, da città anche molto lontane. Come erano arrivati a Pripyat lo si spiegava piuttosto facilmente: grazie alle loro competenze tecniche o scientifiche. Infatti il sistema universitario sovietico era studiato in modo da poter collocare ogni singola risorsa specializzata nella giusta mansione per la quale era stata preparata. 

Uno dei simboli universalmente riconosciuti di Pripyat è proprio la Scuola Secondaria n.3, famosa soprattutto per l’immagine del pavimento ricoperto da maschere antigas.

La stanza delle maschere è senza dubbio un grosso emblema di Pripyat, ci aiuta ad immaginare le dimensioni della catastrofe ma al contempo lascia trasparire il mistero, la difficoltà nel discernere tra il vero ed il falso, ciò che è stato e ciò che si è detto, ciò che non si è mai detto e ciò che invece è stato inscenato e, per concludere, ciò che è stato alterato, manipolato, sottratto.

Il tappeto di maschere racconta una storia artificiale che porta alla luce però delle storie vere, originali. E’ frutto di uno dei tanti, continui e pesanti saccheggi subiti dalla città di Pripyat. In quell’epoca tutte le scuole e gli uffici pubblici erano dotati di maschere antigas da poter utilizzare in caso di attacco nemico e, giusto per ricordarlo, correva la Guerra Fredda e il nemico era l’America.

Le maschere sono state trafugate dai magazzini, i filtri smontati per ricavarne metallo da rivendere al mercato nero, il resto abbandonato sul pavimento. E qui, oggi, sono ormai diventato un feticcio per i fotografi in visita alla Zona, i quali ormai da troppo tempo alterano e manipolano la scena a caccia dello scatto sensazionale ed espressivo, ignorando loro malgrado che nulla è più sensazionale ed espressivo della realtà.

Visitare Pripyat vuol dire immergersi in una istantanea d’epoca, montare in una macchina del tempo e fare un salto nel passato atterrando dritti dritti in piena era sovietica. Esplorarne le scuole è decisamente il modo migliore per immergersi nella cultura e per riscoprire i valori e l’atmosfera del tempo.

Le scuole sono ancora oggi straordinariamente ricche di dettagli. Non è difficile trovare libri sui quali approfondire dettagli della tecnica e della storia, di ciò che era ritenuto importante trasmettere alle giovani generazioni. La propaganda è ovunque, tra gli appunti, sui poster, sui giornali, incisa sui dischi musicali in vinile.

KINDERGARTEN

Pripyat è incredibilmente ricca di asili, o meglio giardini d’infanzia come sono soliti chiamarli da queste parti. E’ piuttosto facile trovarli perfino nei piccoli villaggi circostanti e questo denota un’ulteriore attenzione alle giovani generazioni da parte del sistema sovietico.

Ero già rimasto colpito a riguardo in altri miei viaggi in paesi del blocco sovietico, più che altro dal fatto che spesso e volentieri i tipici blocchi di appartamenti del tipo “Khrushchyovka” affacciano su cortili dove sono allestiti dei semplici giochi per bambini. Gli asili di Pripyat raccontano un’altra parte della storia, quella della parte più debole della popolazione.

Ancora oggi i lettini vuoti sembrano attendere il ritorno dei loro piccoli ospiti, ormai uomini e donne adulte. Da un giorno all’altro le vite delle famiglie si sono trovate stravolte, ognuno portato in un luogo nuovo, lontano.

Sono state troncate amicizie, rapporti, e abitudini. Tutti verso un futuro ignoto, con la paura nel cuore. Molti di quei bambini si sono ritrovati, nei mesi a venire, ad essere orfani di uno o entrambi i genitori, molti altri hanno sviluppato malattie, tumori, problemi psichiatrici.

I giardini d’infanzia di Pripyat sono uno spunto per approfondire tutto ciò che è avvenuto nel Post-Chernobyl. Sono l’emblema che ci fa riaffiorare alla mente il dramma vissuto soprattutto dalla popolazione della Bielorussia, i cui confini sono relativamente molto vicini alla Centrale.

Il dramma dei nati, dei non nati e di tutti quelli che ancora oggi stanno soffrendo per le malformazioni causate, con ragionevole probabilità, dai danni genetici provocati dalle radiazioni di Chernobyl.

IL PALAZZO DELLA CULTURA

Cuore pulsante di ogni città sovietica, il Palazzo della Cultura fungeva da punto di ritrovo e di socializzazione e da fulcro di tutte le attività culturali e ricreative. La centralità del Palazzo della Cultura nella pianificazione urbana dell’epoca sovietica può essere assimilata a quella che hanno avuto le chiese nella nostra cultura italiana.

Nel 1988 in tutta l’Unione Sovietica erano presenti oltre 137.000 palazzi della cultura, con la funzione di catalizzare le attività artistiche e letterarie delle città e, soprattutto, di essere luogo di diffusione della propaganda politica e delle ideologie sovietiche tra la gente colta.

Il Palazzo della Cultura “Energetik” di Pripyat deve il suo nome ad un gioco di parole sul doppio significato di “energetico”, inteso come vivace e al contempo come “lavoratore della centrale elettrica”.

Nel Palazzo della Cultura di Pripyat erano presenti un cinema, un teatro, una biblioteca, un centro congressuale, una palestra attrezzata sia per la ginnastica che per i giochi di squadra, un ring per gli sport da combattimento, una piscina, un laboratorio di “fai da te” e un poligono di tiro nei sotterranei. Inoltre, nel Palazzo della Cultura, c’era anche una discoteca.

BUIO IN SALA

Che le arti visive e performative fossero particolarmente apprezzate dalle popolazioni dell’Est europeo e che fossero parte integrante della cultura sovietica non è un mistero. Ne rimane testimonianza nel fatto che Pripyat avesse una sua scuola di musica e una scuola d’arte, ma soprattutto che avesse diversi teatri e cinema.

Uno dei più grandi era il Cinemateatro Prometheus, l’altro era il Teatro del Palazzo della Cultura, con annessi camerini e sistemi per scenografie mobili sul retro del palco. Ancora oggi nel Teatro è possibile trovare numerosi riferimenti alla Propaganda, con insegne e ritratti dei più alti esponenti del Partito. 

IL DI’ DI FESTA

Alle spalle del Palazzo della Cultura si apre la vista del Parco Cittadino, una volta una bella area verde dove poter passeggiare, dove non era difficile vedere le coppie di giovani ragazzi prendersi per mano e dichiararsi il loro amore.

Il Parco Cittadino è diventato forse il più grande simbolo dell’abbandono di Pripyat. La ruota panoramica svetta immobile, emblema mastodontico della catastrofe e del futuro negato.

Il parco divertimenti di Pripyat doveva essere inaugurato in occasione della prossima festa del Primo Maggio, una festa che non si è mai tenuta. La ruota panoramica, le giostre, l’autoscontro, tutto è rimasto ancora lì, fermo, immobile testimone di una fuga frettolosa. Nulla di tutto ciò è mai entrato in funzione, nessun bambino si è mai divertito su quella giostra o ha mai potuto ammirare la sua città dall’alto della ruota panoramica.

La zona del parco dei divertimenti è una delle zone della città più contaminate. Il piazzale antistante la ruota panoramica è stato infatti utilizzato come base di atterraggio per gli elicotteri impiegati nelle operazioni successive all’incidente di Chernobyl che, avendo volato fin sopra la centrale nucleare, risultavano estremamente contaminati e portavano con sé particelle e polveri radioattive.

Il lavoro dei liquidatori ha portato comunque ad una parziale decontaminazione dell’area, anche se in alcuni punti, soprattutto sulle superfici coperte da muschio, i livelli di radioattività sono ancora molto elevati.

“LAZURNY”: L’ULTIMO BALUARDO

Dopo l’evacuazione della città non tutto smise di funzionare immediatamente. Nei giorni e mesi successivi al disastro di Chernobyl la città di Pripyat fu ripulita da cima a fondo dai liquidatori.

Furono lavate le strade, seppellita la terra contaminata sotto altra terra fresca, aperte le finestre di tutti gli edifici per evitare che la radiazione restasse confinata all’interno. Ma quello che forse è meno noto è che a Pripyat qualcuno continuò a viverci anche per molti anni.

Ci furono strutture che continuarono ad essere occupate, come l’Amministrazione Cittadina, che venne trasformata nella sede dell’ente responsabile della decontaminazione e dello smaltimento dei rifiuti radioattivi e definitivamente abbandonata nel 2001.

Uno degli asili fu invece trasformato nel “Radek“, un laboratorio dove si facevano test sulla radioattività e analisi sui terreni e sulle piante della zona, chiuso nel 1999. I campioni prelevati all’epoca sono ancora lì, nel laboratorio, e sono estremamente pericolosi.

Un’altra struttura rimasta aperta è la Piscina “Lazurny”, rimasta operante nell’atmosfera surreale della città fantasma fino al 1998, al servizio dei lavoratori della Zona. 

La Piscina “Lazurny” è certamente uno degli ultimi baluardi del declino di Pripyat. Adesso anch’essa ha ceduto definitivamente al cospetto della natura consegnandosi al suo destino di abbandono e rovina.

Ma lì, da qualche parte, gira voce che ci sia ancora una struttura funzionante. Una lavanderia dove vengono inviati i vestiti dei lavoratori della centrale nucleare. Probabilmente l’ultimo vero baluardo che continua a resistere in una città ormai morta. 

MILIZIA

A volte ho l’impressione di dimenticare quasi di essere in una zona dove in teoria nessuno potrebbe accedere. Una zona dove dal maledetto giorno dell’incidente di Chernobyl è stato vietato l’accesso a chiunque. Come se niente fosse posso varcare una porta ed entrare in casa di chissà chi, farmi un giro nel suo appartamento e poi passare a quello del suo vicino.

Dopo l’evacuazione la città sarebbe dovuta rimanere sotto il controllo della polizia, soprattutto al fine di custodire le case e tutti i beni lasciati incustoditi (vale ricordare che per l’evacuazione fu consentito portare con se giusto lo stretto necessario per dormire fuori qualche giorno e che, quindi, ogni cosa rimase al suo posto, nelle case), per evitare episodi di sciacallaggio. 

Poi le cose andarono diversamente, le dimensioni della catastrofe andarono di lì a poco delineandosi e si scoprì quindi che Pripyat non sarebbe stata in grado di ospitare la vita umana almeno per qualche centinaio di anni. Furono istituiti i checkpoint, la zona, i reparti speciali dell’esercito.

E nel frattempo, negli anni successivi, orde di sciacalli ignoranti e senza scrupoli facevano barbarie, rubando tutto ciò che potesse essere rivenduto al mercato nero. Probabilmente oggi ci sono in giro per il mondo tonnellate di ferro e di oggetti vari potenzialmente contaminati, con il rischio più grande che chi li possiede con buona probabilità è all’oscuro di tutto. 

Ci sono persone che negli anni hanno fatto ripetute incursioni nella Zona. Chi per rubare, chi per cercare di riprendere le sue cose, chi semplicemente per il gusto di farlo, sbronzarsi, drogarsi e poi collassare su qualche tetto.

C’è un sommerso di persone che non temono la radiazione, anzi, la sfidano. Li chiamano S.T.A.L.K.E.R., acronimo che sta per “Scavengers Trespassers Adventurers Loners Killers Explorers Robbers” ovvero “sciacalli trasgressori avventurieri solitari assassini esploratori rapinatori”. Il termine ha origine dal film di fantascienza “Stalker” diretto da Andrej Tarkovskij nel 1979.

Oggi la città è ancora posta sotto il controllo dei reparti speciali dell’esercito e da qualche anno è formalmente vietato l’ingresso all’interno degli edifici che, giorno dopo giorno, diventano sempre più instabili e pericolanti. La natura a poco a poco si sta riprendendo Pripyat e tutta la zona di esclusione di Chernobyl.

Le piante stanno occupando gli edifici e le strade, ormai la vegetazione ha fagocitato il cemento, le strade si spaccano e arbusti si fanno strada dalle spaccature. Quello che si apre davanti agli occhi di chi riesce ad entrare a Pripyat è un vero e proprio scenario post-apocalittico.

JUPITER

La Jupiter era la più grande fabbrica di Pripyat e la seconda fonte di impiego per numero dopo la centrale di Chernobyl. Tutto quello che si sapeva è che vi si producevano registratori a nastro, ma in realtà era solo una copertura per una fabbrica segreta di tipo militare.

La Jupiter impiegava circa 3500 persone ed è uno dei luoghi che in realtà non è stato chiuso subito dopo l’incidente. Qualche anno dopo l’evacuazione, infatti, alcuni lavoratori furono richiamati e la fabbrica riprese a funzionare sebbene convertita in un laboratorio radiologico per la messa a punto di nuove tecniche di decontaminazione e per lo sviluppo di moderni dosimetri.

Il destino della Jupiter fu per certi versi comune con quello di altre strutture della Pripyat post apocalittica, ovvero quello di diventare centri di studio sulla radioattività.

Pripyat in un certo senso non ha mai smesso di essere una atomgrad, dopo l’incidente, infatti, la Zona di Esclusione di Chernobyl è diventata probabilmente il più grande laboratorio di studio degli effetti della radioattività al mondo.

La Jupiter ha chiuso i battenti nel 1996 e adesso versa in stato di completo abbandono. La struttura è molto pericolante e una parte ha già avuto cedimenti. Il rischio per chi decide di avventurarsi tra le sue rovine qui non è solo di tipo radiologico, un altro killer silente è presente ovunque: l’amianto.

OSPEDALE № 126

Quando successe l’incidente a Chernobyl i primi ad intervenire furono i pompieri. Le prime squadre accorse sul posto non sapevano a cosa stavano andando incontro, ma con tutta probabilità potevano capirlo o per lo meno immaginarlo.

I livelli di esposizione alla radiazione erano elevatissimi, pochi secondi erano sufficienti per ricevere una dose letale. I pompieri saliti sul tetto del reattore in fiamme cominciarono ad accusare immediatamente violentissimi attacchi di vomito, furono soccorsi dai loro colleghi e portati all’ospedale.

Alle sette mi hanno fatto sapere che lui era in ospedale. Ci sono andata di corsa, ma l’ospedale era già isolato dagli agenti della milizia che tenevano la gente a distanza. Lasciavano passare solo le autoambulanze.

Gli agenti gridavano: non avvicinatevi alle macchine, sono tanto radioattive che bloccano i contatori al massimo della scala. Non c’ero solo io, erano accorse tutte le mogli, tutte le mogli degli uomini che si trovavano alla centrale quella notte.

Racconto di Ljudmila Ignatenko, moglie del defunto pompiere Vasilij Ignatenko

Il complesso ospedaliero di Pripyat era denominato МСЧ-126 e comprendeva diversi edifici nei quali erano ubicati l’ospedale vero e proprio, una clinica dentale, il reparto infettivi, la maternità e l’obitorio.

Questo ospedale assunse un ruolo cruciale e tragico nelle ore successive alla tragedia, in quanto divenne il luogo dove venivano prestate le prime cure ai vigili del fuoco e ai lavoratori della centrale che quella maledetta notte si trovavano in servizio.

La moderna e tranquilla struttura ospedaliera, all’avanguardia per gli standard sovietici, si trovò catapultata in un inferno di dolore e atroci sofferenze. All’epoca le terapie contro la malattia acuta da radiazione erano ancora molto grezze e le condizioni dei feriti erano disperate.

Si dice che gli occhi marroni del tenente Vladimir Pravik, pompiere al comando della prima squadra accorsa sul posto dalla stazione interna n.2 della Centrale di Chernobyl, fossero diventati blu a causa delle radiazioni talmente intense.

Alcuni medici e soprattutto molte infermiere ed ausiliarie in servizio presso l’ospedale di Pripyat morirono a distanza di poco tempo dall’incidente, a causa dell’esposizione alle radiazioni emanate dai corpi e dagli effetti personali dei ricoverati.

L’ospedale di Chernobyl fu evacuato nei giorni successivi all’incidente e i pazienti provenienti dalla Centrale furono trasferiti in elicottero e in gran riservatezza nell’Ospedale № 6 di Mosca, specializzato in radiologia. In meno di un mese morirono quasi tutti.

Il piano sopra e quello sotto le stanze dei pazienti di Chernobyl vennero tenuti vuoti e isolati e dopo la morte dei pazienti tutte le stanze vennero svuotate, tutti gli arredi sostituiti, i pavimenti scollati e cambiati, gli intonaci rasati a fondo. Ancora oggi nelle stanze dell’ospedale di Pripyat è facile trovare oggetti molto radioattivi.

Nei sotterranei dell’ospedale giacciono abbandonati gli indumenti, li stivali e gli elmetti di quei pompieri che, dopo essere accorsi sul luogo del disastro, hanno cercato in ogni modo di limitare l’incendio, lavorando senza protezioni tra le barre di grafite incandescenti a pochi passi dal nocciolo del reattore esposto, nel piazzale e sopra il tetto delle unità, spegnendo l’incendio delle guaine di bitume delle quali queste erano ricoperte, evitando la propagazione dell’incendio alla vicina unità 3.

I loro effetti personali sono la testimonianza più profonda e viva della loro storia e i sotterranei dell’ospedale di Pripyat rappresentano oggi uno dei posti più inquietanti della città e, senza dubbio, uno dei posti più radioattivi e pericolosi.

Raggiungerli non è particolarmente difficile, ma sono necessari indumenti protettivi e un respiratore dotato di buoni filtri, per ridurre il rischio di restare contaminati o di inalare o ingerire particelle radioattive. Gli indumenti dei pompieri e in particolare le suole delle scarpe fanno schizzare i contatori Geiger anche oltre i 2000 μSv/h.

EPILOGO

Continuo a camminare in silenzio per le strade, ormai sentieri inghiottiti dalla vegetazione, di Pripyat. Migliaia di finestre senza vetri scrutano verso la foresta fitta. Pripyat resta lì, inaccessibile e desolata, abbandonata al suo lento declino.

C’è silenzio intorno, l’unico rumore è il ticchettio incessante del mio rilevatore di radiazioni e ormai ci ho anche fatto l’abitudine.

Ci si fa l’abitudine, tutto qui è il problema. D’altronde quando un nemico non si vede, non si sente, non c’è alcun senso tra quelli che la natura ci ha donato in grado di percepirlo e individuarlo, si fa presto ad abbassare la guardia.

Cammino tra le carcasse della civiltà. Faccio un respiro profondo, che odore ha l’apocalisse? Guardo una fotografia. Persone in posa, persone sorridenti. Cartoline di un’epoca che non esiste più. L’emblema sovietico svetta ancora sulle sommità dei palazzi, ho la sensazione di essere un piccolo uomo che cammina in una istantanea d’epoca.

Il tempo è fermo. Stringo in mano una monetina da tre copechi e improvvisamente mi immagino seduto al Café Pripyat, sulla riva del porto fluviale. Sento il cinguettio degli uccelli e il ronzio delle zanzare, sull’albero davanti a me un bellissimo frutto. Coglierlo sarebbe un errore, un uomo a Chernobyl mi ha avvisato: mangiarlo potrebbe voler significare condannarsi a morte.

Cammino immerso nelle radiazioni, eppure questo in fondo è abbastanza normale. Camminiamo tutti immersi nelle radiazioni, ogni giorno e in qualsiasi luogo. Le radiazioni che vengono dal cosmo, quelle che vengono dal sole, quelle che vengono dalla terra, dall’aria, dagli oggetti che usiamo ogni giorno, dalle sigarette che fumiamo, da quello che mangiamo. Un buon chimico sa che è la dose a fare il veleno.

Qui l’atomo pacifico ha distrutto la vita, ha affermato che l’uomo è impotente davanti alla natura nonostante cerchi costantemente di domarla e di plasmarla, infine ha restituito comunque il tutto ad una nuova esistenza, che però non prevede la presenza dell’uomo, e a lui sarà inaccessibile per ancora un lungo tempo.

GUERRA IN UCRAINA – AGGIORNAMENTI SULLA SITUAZIONE ATTUALE NELLA ZONA DI ESCLUSIONE

6 commenti su “Pripyat: Viaggio nella Città Fantasma di Chernobyl”

  1. Sto leggendo BlackBird di Anne Blankeman, che narra la storia del disastro di Chernobyl e delle drammatiche vicende di alcuni sopravvissuti. Cercando documenti sul web ho trovato e letto con enorme interesse il tuo articolo, davvero esaustivo e toccante.
    Dev’essere stato straziante aver toccato con mano quella testimonianza impregnata del dolore di così tante persone…
    Grazie.

    1. Ciao Marinella, si, quella di Chernobyl è una vicenda molto complessa, anche e soprattutto dal punto di vista umano.

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