Vai al contenuto
auschwitz

GUIDE / AUSCHWITZ

Auschwitz e Birkenau: viaggio verso l’inferno

Questo non è un viaggio come altri. Quello ad Auschwitz è un viaggio prima di tutto attraverso la propria coscienza.

Uno di quei posti assurdi che non dovrebbero nemmeno esistere e invece ci sono. Emerge a poco a poco dalla nebbia, riempie l’orizzonte, è davanti a te e ti accorgi che purtroppo è tutto vero e reale.

Nascosto agli occhi del mondo la follia umana ha creato Auschwitz. La storia lo ha rivestito di tragica fama. Il cinema lo ha spettacolarizzato. Auschwitz è la prova tangibile che tutto ciò è realmente esistito. E’ la prova materiale del dolore.

Il Campo di Concentramento di Auschwitz è il simbolo per eccellenza della sofferenza umana del XX secolo.

Immerso in una terra che da sola è simbolo di una delle più sanguinose guerre del novecento, la Polonia, tagliata in due dalle correnti di supremazia tedesche e sovietiche, spartita e spolpata, il Complesso Concentrazionario di Auschwitz è stato la più grande fabbrica della morte della Germania Nazista, una struttura superiore alle varie centinaia di strutture del genere per estensione ed efficienza.

Il Campo di Auschwitz era formato da un campo di concentramento principale (Auschwitz I), dal campo di sterminio di Birkenau (Auschwitz II) e dal campo di lavoro di Monowitz (Auschwitz III), oltre 45 sottocampi e numerose aziende agricole e allevamenti del Reich nelle quali i deportati venivano impiegati come schiavi.

Il tutto funzionava come una efficientissima macchina della morte. Tra il 1940 e il 1945 ad Auschwitz furono deportati milioni di persone ed almeno 1.100.000 di esse ad Auschwitz trovarono la morte.

Voi non siete venuti in un sanatorio, ma in un lager tedesco. Qui esiste solo l’entrata e non c’è altra via d’uscita che il camino del forno crematorio. Se a qualcuno questo non piace, può andare subito a buttarsi sul filo spinato ad alta tensione. Siete venuti qui per morire: gli ebrei, non hanno diritto a sopravvivere più di due settimane, i preti un mese e gli altri tre mesi.

Karl Fritzsch. Primo vicecomandante del lager di Auschwitz.

Auschwitz è luogo di dispute e di storie. Le stime del numero di morti sono da sempre oggetto di disputa e vanno dal milione e mezzo ai quattro milioni, rese difficili anche dal fatto che molti detenuti non sono stati schedati o parte degli schedari è andata distrutta. Negli ultimi giorni dei campi lo sterminio è stato massivo e senza regole.

Ci sono storie, tante storie, legate ad Auschwitz. Una racconta di un certo Josef Mengele, medico nazista sopravvissuto al crollo del regime, sfuggito al Processo di Norimberga e vissuto in latitanza nell’America latina fino alla morte per cause naturali.

Il suo nome è passato alla storia per gli esperimenti sui gemelli omozigotici. Qualcuno sostiene che non ha mai smesso di fare esperimenti, neanche dopo la fine della guerra.

Nel Blocco 10 di Auschwitz i Dottori Clauberg e Schumann invece si dedicavano ad esperimenti sulla sterilizzazione e sull’inseminazione artificiale. Molti degli studi di Clauberg hanno avuto risvolti per la medicina moderna. Mentre Viktor Brack mise appunto una catena di montaggio micidiale allo scopo di effettuare la castrazione chirurgica per mezzo delle radiazioni, con risultati drammatici.

Il 3 settembre del 1941 nei sotterranei del Blocco 11 venne sperimentato per la prima volta l’utilizzo dello Zyklon B, un antiparassitario inventato, ironia della sorte, da un chimico ebreo della Bayer, come gas per lo sterminio.

Da quel momento venne utilizzato massicciamente per lo sterminio di massa in un ristretto numero di campi, in particolare ad Auschwitz e Majdanek, sostituendo quasi del tutto l’utilizzo delle iniezioni di fenolo e dei gas di scarico dei camion.

Il resto è storia ed è giusto approfondirla sulla vasta letteratura che si trova sull’argomento.

AUSCHWITZ: VIAGGIO VERSO L’INFERNO E RITORNO

Oświęcim è una piccola cittadina in aperta campagna, a circa 60 km da Cracovia. Tutto ebbe inizio qui nel 1940, quando il torpore di questa zona remota e nebbiosa, circondata da immense foreste di conifere, venne scosso e stravolto una volta per tutte. Oświęcim è il nome polacco della città prima che i tedeschi lo cambiarono in Auschwitz.

Per il mondo è Auschwitz, per i polacchi è Oświęcim, e finché siete in Polonia abbiatene rispetto e chiamatela con il suo nome.

Il viaggio comincia nella Stazione Regionale dei Bus di Cracovia, a due passi dalla Stazione Centrale dei Treni. Uscendo dal sottopasso della stazione subito sulla sinistra c’è l’ingresso principale con le biglietterie. Chiedete un biglietto per Oświęcim.


GUIDA ALLA VISITA DEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO DI AUSCHWITZ E BIRKENAU

COME ARRIVARE AD AUSCHWITZ DA CRACOVIA



Durante il percorso che separa Cracovia da Oświęcim si ha modo di capire il perché i nazisti decisero di costruire il loro Inferno proprio qui. Ci si addentra sempre più in un paesaggio desolato e isolato, le stradine sconnesse viaggiano attraverso foreste e campi aperti, l’atmosfera è tersa, ghiacciata e nebbiosa in questa mattina di gennaio.

Si ha l’impressione di essere abbandonati in un posto circondato dal nulla. Si ha voglia di gridare, ma la voce torna in dietro per l’eco. Si disperde nel vuoto.

Dopo quasi due ore di viaggio il minibus arriva davanti a quello che oggi è il Museo di Auschwitz.

Nel piazzale decine e decine di turisti bivaccano in attesa dell’inizio della visita guidata, di certo non ci si aspetta un’aria da gita scolastica in posti come questi, ma tanto è.

Quando si visitano posti di questo tipo non è facile rimanere fedeli alla sacralità del luogo, mettere da parte l’idea che in fondo si è in vacanza, entrare in quel mood di rispetto e di introspezione che deve essere il motivo primario di una visita del genere.

E questo vale per tutti, ed è valso anche per me. Più volte mi sono domandato se forse, anche il solo atto di scattare una foto potesse essere un qualcosa di irrispettoso. Ma la scelta che ho fatto è stata quella di vedere, comprendere e poi documentare.

Il mio viaggio ad Auschwitz è stato un percorso di introspezione e documentazione, e le righe che sto scrivendo vogliono essere un invito ad andare a vedere con i propri occhi e capire con la propria testa. Ognuno fa il proprio, personalissimo, viaggio ad Auschwitz.

Di norma è possibile scegliere se visitare autonomamente il Campo oppure se partecipare ad una visita collettiva con guida. Nel primo caso l’ingresso è immediato e gratuito, nel secondo occorre pagare un contributo. Io, avendo il giusto tempo a disposizione, ho scelto di effettuare una prima visita in maniera autonoma per poi approfondire con una guida.

Ho preferito addentrarmi da solo nel Campo di Concentramento, approfittando di un momento in cui non c’erano altri gruppi in visita. Ed una volta varcato il cancello, tristemente noto per la scritta Arbeit Macht Frei, il Lavoro Rende Liberi, ho avuto l’impressione di aver varcato una linea di confine.

Il filo spinato e le recinzioni segnano la frontiera tra chi è dentro e chi è fuori. Tra chi è vivo e chi è morto. Chi torna a casa, chi ha perso tutto. Ed è difficile da stabilire, nel gioco delle parti, chi è dall’una e chi è dall’altra.

Nel silenzio, accompagnato dal rumore dei miei passi, mi sono addentrato nei padiglioni, soffermandomi a riflettere su quello che i miei occhi stavano vedendo. Interi edifici a due piani intenti a rappresentare la storia dei popoli che qui sono stati costretti dai piani omicidi del Terzo Reich.

Dalle finestre di Auschwitz si scorgono i viali, che ora sono quieti e vuoti, dove poco più di 70 anni fa lunghe file come plotoni di prigionieri camminavano diretti ai lavori forzati o alla morte. Guai a lasciare la fila, guai a mancare gli appelli.

Torri di guardia sorvegliano in lungo e in largo i corridoi, mi sembra di immaginarle le guardie. Mi sembra di sentire una scarica di mitragliatrice, forse è un giovane ufficiale delle SS che imbracciando la sua MP40 ha freddato un uomo che tentava di ribellarsi.

Il viale finisce con il filo spinato. Halt, e ancora filo spinato e recinzioni elettrificate. Halt, e giù di scariche di mitra, mentre le luci tondeggianti dei fari delle torri di guardia rischiarano il viale dal manto scuro della notte.

Passo davanti al Blocco n.10, il blocco degli esperimenti medici. Sembra la trama di un film dell’horror, immagino queste donne dallo sguardo perso, gli occhi fuori dalle orbite per la paura, le pupille dilatate, le grida soffocate. Gli esperimenti ginecologici venivano realizzati qui a ritmi incalzanti, con una fornitura pressoché illimitata di cavie umane.

Il Blocco n.10 è anche quello dove il dott. Josef Mengele eseguiva gli esperimenti sui gemelli. Lui, l’angelo della morte, lo stesso che anche nell’ultimo giorno di esercizio del Campo di Birkenau, con l’Armata Rossa alle porte, fece una meticolosa e lucida selezione dei 506 prigionieri appena arrivati al campo con l’ultimo treno e ne inviò 480 alle camere a gas.

Tra il Blocco n.10 e il Blocco n.11 c’è un cortile. In fondo al cortile c’è un muro. Quel muro ha visto centinaia e centinaia di persone morire. In questo cortile avvenivano le esecuzioni, e il muro faceva da sfondo alle fucilazioni.

Ci sono aperture lungo il muro del Blocco n.11, conducono dritte ai sotterranei, dritte dove si attende la morte. Ma non possono sapere, non devono vedere, le persone del Blocco n.10, per questo le finestre che danno sul cortile sono schermate da tavole di legno.

Giusto qualche passo avanti e incontro il Blocco n.11, il Blocco della Morte, le prigioni del lager dette semplicemente “il bunker”. Entrando si passa per le prime stanze, quelle degli uffici della Gestapo.

Qui venivano compiuti i processi sommari che mandavano in prigione o a morire detenuti di ogni tipo e per ogni motivo. Alla fine del corridoio si staglia una delle forche mobili usata per le impiccagioni. Di fianco le scale per i sotterranei.

Nei sotterranei del Blocco n.11 ci sono celle di diverso tipo dove spesso i detenuti erano lasciati a morire di fame, proprio in una di queste celle, nella 18 per l’esattezza, morì Padre Massimiliano Kolbe, che si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame e per questo fu proclamato santo nel 1982. Nella cella 20 i prigionieri venivano lasciati senz’aria, e morivano per asfissia.

Dietro la porta n.22 si nascondono 4 cellette, simili a canne di un camino. Sono le celle per stare in piedi, una terribile tortura nella quale i prigionieri venivano fatti entrare con la forza da una piccola botola in basso per essere poi rinchiusi in queste cellette senza luce e con la possibilità di prendere aria solo da una piccola fessura in alto.

Sotterranei del Blocco 11: Celle per stare in piedi. Il prigioniero veniva fatto entrare dalla botola in basso e costretto a stare in piedi, al buio, senza aria a sufficienza. Si moriva per asfissia.

Torno in superficie, esco dal Blocco n.11, attraverso la piazza degli appelli, mi sembra ancora di vedere i cadaveri penzolanti dei detenuti impiccati davanti a tutti come monito, non insisto a star troppo a guardare, quasi mi vergogno e abbasso la testa.

Sto andando oltre il filo spinato. Passo davanti alla forca dove il 16 aprile del 1947 fu giustiziato Rudolf Höß, primo comandante del Campo di Concentramento di Auschwitz. Mi volto e vedo una casupola bassa senza finestre, e la ciminiera.

La Camera a Gas del Campo di Concentramento di Auschwitz

Torno in me, ho visto troppe scene passare davanti ai miei occhi. Ma non ho compreso bene. Non è facile riuscire a comprendere anche per una minima parte quello che è avvenuto qui e in posti come questo. 

Torno al cancello di ingresso, fra poco ci sarà una visita accompagnata dalla guida in italiano. Pago il contributo e mi accodo al gruppo, la guida è necessaria per comprendere tutti i dettagli che stanze ormai vuote non possono comunicare.

I Forni Crematori del Campo di Concentramento di Auschwitz

Campo di Sterminio di Birkenau (Auschwitz II)

Al termine della visita di Auschwitz I la guida ci accompagna nel piazzale del Museo, qui ogni mezz’ora parte un autobus che in pochi minuti corre attraverso la campagna dove una volta c’erano le fabbriche, i negozi e le case legate all’indotto del campo: la zona di interesse.

Auschwitz I è separato da Auschwitz II da circa 3,5km di campi e boschi di betulle. Ben collegato con la stazione ferroviaria, uno dei punti cardine che ne hanno fatto il sito di elezione per costruire un mega campo della morte.

Mentre il bus percorre la strada la scorgo in lontananza: la torre di guardia dell’ingresso principale di Birkenau. Sembra un mostro con le fauci aperte, in agguato all’orizzonte, divoratore di donne, bambini e uomini.

L’autobus passa davanti all’ingresso, comincia a costeggiare il recinto principale e comincio a scorgere le prime baracche e poi ancora altre ed altre ed altre.

Resto impietrito e in silenzio. Il Campo di Sterminio di Birkenau si perde all’orizzonte, è difficile scorgerne la fine.

Progettato nel 1941 come macchina di sterminio, era diventato in breve tempo sinonimo di efficienza nel perseguimento degli obiettivi della Soluzione Finale della Questione Ebraica.

Una volta varcato il cancello il treno era direttamente nel campo, lo percorreva e poi si fermava. Le guardie aprivano i carri bestiame e le persone venivano riversate fuori e messe in fila per la selezione. Il medico del campo decideva chi poteva lavorare e chi invece era inabile al lavoro, quindi doveva morire subito nelle camere a gas.

La prima camera a gas e il primo crematorio di Birkenau fu la Casetta Rossa, una piccola casa di campagna espropriata e trasformata alla buona. Dopo la guerra i contadini ne tornarono in possesso e la ristrutturarono, tornarono ad abitarvi consapevoli di dormire e mangiare sopra le ceneri di migliaia di morti. Solo qualche anno fa lo Stato è riuscito a tornarne in possesso dopo una lunga trattativa con i contadini, grazie soprattutto all’interessamento di alcuni studiosi, di uno in particolare, italiano peraltro.

A seguire fu costruita la Casetta Bianca e successivamente gli impianti di camere a gas e crematori veri e propri progettati secondo criteri di efficienza industriale. Di questi impianti oggi non restano che ruderi, i tedeschi li hanno fatti saltare prima di abbandonare il campo.

Il Crematorio II e il Crematorio III erano veri e propri complessi con spogliatoi, camere a gas e forni, progettati per funzionare a ciclo continuo. Giorno e notte dalle ciminiere saliva fumo acre e denso. La cenere e l’odore si spargevano per chilometri e chilometri.

I detenuti erano ospitati in baracche, divisi secondo criteri organizzativi rigidi, ospitati in strutture simili ad un pollaio in legno o in muratura. Insufficienti per l’enorme numero di detenuti le strutture igieniche, enormi capannoni adibiti a latrine, dove capitava anche che a volte i detenuti per non farsi trovare si immergevano completamente nelle acque luride.

Ancora uno sguardo verso la lunga fila di baracche che si perdono nella foschia di questo freddo pomeriggio di gennaio, per poi tornare con il bus ad Auschwitz I e da lì a Cracovia, cercando di metabolizzare pian piano lungo la strada quanto visto.

Non è possibile e nemmeno necessario dare una interpretazione o un commento a quello che è successo ad Auschwitz o in posti simili, è semplicemente necessario prenderne atto, conoscere, sapere. E tutto questo non per giudicare, ma solo e semplicemente per evitare che in futuro atti come questi possano essere ripetuti.


Per testare fino a che punto è disposto l’essere umano a seguire le indicazioni di un’autorità, sia esso un medico, uno scienziato o un militare, lo psicologo Stanley Milgram della Università di Yale condusse delle prove conosciute appunto come “Esperimento di Milgram”.

Due persone erano invitate a partecipare e ricevevano casualmente il ruolo di “insegnante” o “studente”. Le due persone venivano messe in camere separate dove potevano solo sentirsi ma non vedersi. L’insegnante doveva dare una scarica elettrica di intensità sempre crescente ad ogni risposta errata dello studente.

In realtà gli studenti erano degli attori e non c’era nessuna scarica elettrica, ma gli insegnanti continuarono ad infliggere loro scosse di tensioni altissime e potenzialmente mortali, nonostante le urla strazianti e le richieste di interrompere l’esperimento da parte degli studenti.

Tutto questo perché la gente si sentiva obbligata ad obbedire ad una figura autoritaria che li invitava a continuare. Il condizionamento era tale che l’impellenza ad obbedire si dimostrava essere più forte del senso di pietà verso la vittima e del senso di colpa per il dolore inferto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *